Esce oggi il libro autobiografico di Ilda Boccassini, “La stanza numero 30 – Cronache di una vita”. L’ex procuratore aggiunto di Milano in 343 pagine racconta sé stessa e la esperienza professionale, segnata da anni orribili come quelli delle stragi. Ma tutti parlano (quasi) solo dei passaggi dedicati al suo rapporto con Giovanni Falcone, che conobbe negli anni Ottanta e del quale a quanto viene riferito subito pensò “è un figo”. Passaggi che stanno facendo discutere.
“Cosa avrebbe riservato il destino a me e Giovanni, se non fosse morto così precocemente?”, si chiede nel memoire “Ilda la rossa” (che in anni più recenti ha indagato anche su Silvio Berlusconi per il caso Ruby), per poi rivelare: “Me ne innamorai. È molto complicato per me parlarne. Sicuramente non si trattò dei sentimenti classici con cui siamo abituati a fare i conti nel corso della vita. No. Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento. Ero innamorata della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo essere più importante di tutto il resto. Sapevo di non poter condividere con lui un cinema o una gita in barca, pur desiderandolo, ma non ero gelosa della sua sfera privata, né poteva vacillare la mia. Temevo che quel sentimento potesse travolgermi. E così in effetti sarebbe stato, perché lo hanno ucciso”.
Boccassini riferisce inoltre dei tanti incontri, di lavoro ma non solo. Come la giornata al mare all’Addaura, nell’estate del 1990, e di quando lui l’avrebbe invitata a tuffarsi: “Io pensai alla messa in piega appena fatta. Pensieri da donna che non mi fermarono e lo raggiunsi. Giovanni prima mi prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto”.
“Ilda la rossa” confessa poi che in verità i suoi capelli sono di “un normale castano senza infamia e senza lode, ma fin dagli anni della giovinezza mi piaceva tingermi con l’henné, un segno di libertà molto in voga tra le ragazze che negli anni Settanta tenevano alla loro emancipazione e volevano farlo vedere”. Secondo la Boccassini, a Falcone quei riccioli “piacevano molto”. E non solo quelli: “Quante volte mi ha detto che i miei occhi «erano bellissimi»”.
E scrive anche dei viaggi fatti assieme, come quello in Argentina nel giugno del 1991, per interrogare Gaetano Fidanzati: “Avevo anche un walkman con una cassetta di Gianna Nannini, che ho imposto a Giovanni per tutta la durata del viaggio. Alcune canzoni mi facevano pensare alla nostra storia e le ascoltai più volte, per ore, stringendomi a lui. In top class non c’erano altri passeggeri, eravamo soli in quel lusso rilassante, la nostra intimità disturbata solo dall’arrivo delle hostess. Rimanemmo abbracciati per ore, direi tutta la notte, parlando, ascoltando Gianna Nannini e dedicandoci di tanto in tanto ad alcuni dettagli dell’interrogatorio e ai possibili sviluppi dell’indagine. Che notte...”.
Parole in seguito alle quali assumono o possono assumere significati diversi circostanze come quella in cui, il 2 maggio 1992, nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano chiese di prendere la parola e, con gli occhi gonfi di lacrime celati dietro grandi occhiali scuri, disse quasi con ferocia riferendosi a Giovanni: “Con le vostre critiche ... voi lo avete infangato. Voi diffidavate di lui. E adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali”. Si apprende anche che Ilda conserva ancora senza averlo mai più indossato il tailleur blu scelto per la commemorazione di Falcone: “Al dolore che provavo per la perdita di Giovanni si sommarono attacchi e critiche impietose provenienti dai soliti avversari ma anche dagli amici”.
A molti non è sfuggito il “dettaglio” che Falcone a quell’epoca fosse sposato con Francesca Morvillo, a sua volta magistrata, morta con Giovanni e i tre uomini della scorta nella strage di Capaci.
I racconti della Boccassini sono dunque di cattivo gusto o comunque indelicati (perché Falcone non era certo single e perché in ogni caso non è più qui per confermare o smentire la storia)? Sono frivoli perché, come in effetti sta avvenendo, rischiano di oscurare tutto il resto (comprese le rivendicazioni di genere e i riferimenti alle difficoltà di muoversi all’interno di un ambiente maschile, come quando da Caltanissetta le chiesero di unirsi al pool che avrebbe indagato sulle stragi di Capaci e via d'Amelio: “Se anziché «una» pm fossi stata «un» pm, la scelta di partire per dedicarmi altrove al lavoro sarebbe stata normale... ma io sono una donna, un madre e nel pensiero comune la medesima scelta era come commettere un reato, qualcosa di innaturale che meritava una condanna senza appello... E poi avrei dovuto cambiare parrucchiere...”)? O sono racconti legittimi e da accogliere al limite anche con favore perché dimostrano che prima di tutto i magistrati sono uomini e donne (nei magistrati almeno per ora fortunatamente non risultano esserci individui che si dichiarano non binari), con le loro forze e con le loro debolezze, compresi i problemi di messa in piega?