Quattro milioni di euro per il 2021, e altri quattro per il 2022: con queste cifre l’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) finanzierà la realizzazione o il potenziamento dei Centri contro le discriminazioni di persone LGBT+, oltre che delle Case di accoglienza destinate a coloro che hanno subito maltrattamenti a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere.
Per Franco Grillini – co-fondatore e presidente onorario di Arcigay Nazionale, deputato dal 2001 al 2008 – questa notizia rappresenta un passo importante, da parte dello Stato, che va finalmente nella direzione di uno degli obiettivi che hanno accompagnato lo stesso Grillini nel corso di una militanza gay ormai quasi quarantennale: la lotta alla solitudine delle persone LGBT+. Obiettivo che peraltro ha visto una tappa significativa, a metà dei primi anni Duemila, nella sua lotta – ahinoi vana – per l’approvazione dei PACS (la S sta per Solidarietà), precursori delle attuali Unioni Civili.
Oltre a commentare la specifica iniziativa di UNAR, abbiamo parlato con Grillini (il quale tra l’altro è presidente di Gaynet, che sempre grazie ad UNAR realizzerà il progetto Archivio Diffuso, per la digitalizzazione degli archivi a tema LGBT+) della sua “filosofia” di attivista, pragmaticamente finalizzata a miglioramenti concreti nella vita delle persone LGBT+.
Il tema delle coppie gay è stato in cima alle tue priorità già in tempi non sospetti, quando i militanti vedevano come obiettivo ultimo la liberazione sessuale. In che momento hai deciso di fartene portavoce?
L’8 giugno del 1982 partecipai alla mia prima riunione da gay dichiarato, venti giorni prima dell’inaugurazione del Cassero di Bologna (attuale Cassero LGBTI Center, comitato provinciale Arcigay di Bologna, nda). In quell’occasione bisognava adottare uno slogan per l’inaugurazione, e scegliere l’immagine per il manifesto che sarebbe stato affisso in tutta la città. Il fondatore del Cassero appoggiò sul tavolo trecento diapositive, e mi chiese di scegliere l’immagine più efficace, perché avevo la reputazione di essere un professionista della politica, data la mia militanza nel Partito di Unità Proletaria. Ne individuai una in cui si vedevano due ragazzi abbracciati, fotografati dall’alto dello scalone di Palazzo Re Enzo. Iniziammo quindi a dibattere sulla natura del messaggio che quella foto avrebbe veicolato, ed io feci un’affermazione un po’ aspra, con l’atteggiamento di superbia tipico degli appartenenti al PDUP, dicendo: «La liberazione sessuale la possiamo considerare conclusa…».
Boom!
«…perché il sesso ce lo possiamo procurare come e quando vogliamo. Adesso la questione fondamentale è la relazione fra di noi». Si aprì una discussione accesissima, in cui mi accusavano di voler imporre il modello della famiglia borghese, che invece «si abbatte e non si cambia», di voler riprodurre il matrimonio tradizionale, il modello patriarcale, eccetera. C’era tutto quell’armentario ideologico che io per primo avevo utilizzato nella mia polemica contro il familismo, quando facevo parte della corrente del PDUP di Lidia Menapace, la quale promuoveva il piacere come valore e il privato come fatto politico. «Il pane e le rose», insomma, per usare lo slogan di allora. Faticosamente tentai di spiegare che non intendevo il matrimonio tradizionale con i confetti, la benedizione del prete, il buffet, e via dicendo…
A che tipo di relazione pensavi, dunque?
Non solo a quella esclusiva, ma alla relazione tout court: sessuale, affettiva, d’amicizia, di conoscenza, di condivisione e di appartenenza. Questo perché già allora vedevo che le persone soffrivano di solitudine. Molti mi dicevano: «Aspetto con trepidazione la riunione del Circolo per avere un po’ di compagnia». Ed era logico che fosse così, perché passavano tutta la giornata da “clandestini” – o da “velate”, per usare la declinazione femminile a cui all’epoca mi opponevo fortemente – e quindi erano sottoposti a uno stress non indifferente. Lo spiega molto bene Vittorio Lingiardi nel suo libro Citizen Gay, dove ha teorizzato il concetto di minority stress, che ho percepito subito, perché lo provavo anch’io, quand’ero solo.
Quindi la tua visione era più ampia rispetto al tema delle coppie dello stesso sesso…
Sì, perché – nella mia testa – la risposta alla solitudine, e allo stress correlato ad essa, era un’idea di solidarietà e di coesione collettiva che rendesse la vita delle persone omosessuali più felice. All’epoca non lo dicevo esplicitamente per paura di essere accusato di moderatismo o, peggio, di riformismo (che era un insulto, per la sinistra), ma il mio obiettivo fondamentale era quello di battersi per ottenere – qui e ora, e non in un mondo utopico – un cambiamento della vita sociale e personale delle persone LGBT. Questo per garantire un maggior benessere psicologico e una maggiore salute (tema che di lì a poco sarebbe diventato centrale, con la lotta all’HIV).
Come si è conclusa la discussione per il manifesto dell’inaugurazione del Cassero, alla fine?
Allora ci voleva l’unanimità per ogni decisione. Non c’erano stati problemi con gli altri aspetti organizzativi della manifestazione, ma su quello tirammo fino alle cinque del mattino… del resto, essendo un sindacalista, avrei potuto andare avanti fino al giorno dopo. Tenni duro perché ero convinto della giustezza della mia intuizione (e infatti la Storia mi ha dato ragione): man mano le persone che erano contrarie se ne andarono, e alla fine la decisione fu approvata all’unanimità. Il manifesto ebbe un successo enorme e andò esaurito immediatamente: tutti quelli che arrivavano a Bologna da fuori, se ne portavano a casa una copia.
Ho l’impressione che il discorso riguardante il minority stress venga colpevolmente sottovalutato dagli attivisti LGBT+, che invece preferiscono dare un volto necessariamente felice alla “comunità”, nascondendo sotto il tappeto quella componente di solitudine che è ben lungi dall’essere stata debellata…
Buona parte della mia azione politica si è svolta proprio su questo terreno. Fin dall’inizio degli anni Duemila ho detto: «Il futuro delle organizzazioni LGBT si giocherà sulla capacità di fornire servizi alla persona», che è l’aspetto in cui, in Italia, siamo sempre stati abbastanza deficitari. C’erano sì i telefoni amici, ma poi, quando c’erano casi personali gravi, era difficile intervenire. Quindi il mio messaggio è stato: «Bisogna intervenire anche nell’assistenza diretta alla persona per superare un deficit storico», dovuto all’assenza di fondi, perché l’assistenza diretta richiede grossi quantitativi di denaro.
Lo stanziamento dei quattro milioni da parte di UNAR per i centri servizi LGBT+ va proprio in questa direzione. Alla buon’ora, oserei dire.
Sì, ed è la prima volta nella storia del nostro Stato, che qualche soldo l’aveva stanziato solo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta per la lotta all’AIDS.
E questi servizi come si articoleranno?
Da una parte i centri d’accoglienza veri e propri, che saranno la cosa più costosa e più difficile, perché la persona la devi prendere in carico al cento per cento (alloggio, cibo, vestiti, piccole spese quotidiane, etc.); dall’altra parte l’assistenza legale, che è richiestissima, sia per gli atti di omofobia sia per la protezione internazionale delle persone immigrate LGBT, provenienti da paesi in cui l’omosessualità è considerata un crimine. Poi ci sarà l’assistenza di carattere psicologico, personale, umano e – perché no? – politico e culturale. Se qualcuno vuole farsi una cultura su argomenti LGBT, devi dargli gli strumenti per farlo, cosa che Internet ovviamente ha reso più facile. Quindi servizi in senso lato, e io spero che l’iniziativa abbia successo. Sono vent’anni che lo ripeto in ogni riunione: lo scopo delle associazioni LGBT deve essere quello di garantire il benessere al maggior numero possibile di persone, favorendo tutte quelle conquiste che possono consentir loro di vivere meglio con sé stesse e con gli altri, e di avere una prospettiva di vita felice.
Questo discorso può essere applicato alle minoranze in genere, no?
Certo. Ed è chiaro che per essere coerenti fino in fondo con questa prospettiva di solidarietà, bisognerebbe anche promuovere un rinnovamento urbanistico. Nell’esperienza di TO Housing (progetto di cohousing per l’accoglienza delle persone LGBT+ in condizioni di difficoltà e fragilità, nda) che è stata fatta a Torino, le persone non vengono chiuse in una casa di riposo, ma stanno dentro a un’area caratterizzata dalla presenza di numerosi servizi alla persona, dov’è possibile condurre una vita personale indipendente. Secondo me questo è il futuro, per quanto riguarda la convivenza, e non solo tra gay ma, per esempio, per gli anziani in generale (tra l’altro abbiamo visto cos’è successo nelle RSA col Covid…): bisogna favorire la permanenza degli individui nel tessuto sociale delle città, delle periferie e delle province, qualunque sia la loro condizione, a maggior ragione se resa più complessa da un handicap, da una malattia, dall’età, eccetera. Questa è la mia idea di azione politica. È un obiettivo rivoluzionario? Non m’importa, a me interessa il risultato.
Più che rivoluzionario direi ragionevole: è un dato di fatto che una società più felice sia anche una società più performante e soprattutto più sana.
È quello che ho tentato di spiegare recentemente a Matteo Lepore (assessore alla cultura di Bologna e candidato sindaco per il 2021, nda): è forse un caso che nel 2020 Bologna sia stata messa dal “Sole 24 Ore” al primo posto tra le città italiane per qualità della vita? No di certo, perché in Bologna si ritrovano le caratteristiche descritte da Richard Florida nel saggio L’ascesa della classe creativa, in cui Florida dimostra – dati alla mano – che dove i diritti alle minoranze sono garantiti, non solo si vive meglio, ma si lavora anche meglio e si produce maggiore ricchezza. Ricchezza da redistribuire, s’intende.