Dobbiamo fare un passo indietro nel tempo e tornare a prima degli anni '60, dove di fatto esistevano due concezioni dicotomiche dell'essere: o eri etero, oppure eri gay. Niente sfumature di genere e nemmeno possibilità di comprendere le differenze tra ruoli, identità e orientamento, ma solo due etichette che rappresentavano gli estremi tra “normalità” e “patologia”. Di fatto l'omosessualità era considerata una patologia psichiatrica vera e propria “curabile” con psicofarmaci, tecniche comportamentali basate sui pestaggi terapeutici, bianchi camici contenitivi e violenti elettroshock, tutto volto allo scopo di rendere “sana” una persona “malata”.
I virgolettati sono d'obbligo. La visione dell'epoca (per qualcuno stupidamente saggia ancora oggi) vedeva nell'orientamento omosessuale lo stereotipo del malsano, del bizzarro, del biologicamente contro natura, la macchietta, l'artista controverso, la domanda d'obbligo durante le visite di leva per non infettare con l'assenza di moralità il resto delle truppe, la preclusione dall'impiego, l'anomalia da curare prima con la forza e poi con la violenza.
In tutto questo, i moti di Stonewall prima e gli studi di genere poi (non l'ideologia gender, quella è talmente inconsistente che nemmeno chi la racconta sa di che parla), ci hanno fatto comprendere quanto l'idea del morbo gay era sballata, tanto da portare il 17 maggio del 1990 alla cancellazione da parte dell'OMS dell'omosessualità come malattia mentale e la riconsiderazione in “variante naturale del comportamento umano”.
Ora, nonostante molti di noi conoscano alcuni passaggi importanti che ci hanno condotto al superamento dell'omosessualità come malattia mentale, pochi conoscono il ruolo fondamentale di George Weinberg, psicoterapeuta americano che nel 1965 elaborò un profondo trauma vissuto in terza persona. Durante un comizio, assistette ad una scena dove una sua amica fu vittima di una aggressione verbale da parte di alcuni tizi, i quali pronunciando parole come “Stai zitta, lesbica” o “Pu**ana lesbica”, tentarono di schiacciare il suo intervento usando scherno, violenza ed odio nei suoi confronti.
Weinberg, maschio, bianco, etero dichiarato, appartenente ad un ceto sociale medio-alto e quindi alla classe dominante, con molta umiltà e tanto cervello, cercò di comprendere i temi che spinsero quelle persone ad odiarne un'altra solo per l'orientamento sessuale e come questo causasse dolore nelle persone. Divenne attivista del nascente mondo LGBT e ne sposò la causa, andando controcorrente verso il mondo clinico che invece considerava l'omosessualità come malattia psichiatrica.
Proprio in quel periodo coniò il termine “omofobia” capovolgendo la prospettiva vigente, sociale, politica e medica, secondo cui le persone omosessuali erano malate e addossando invece, agli omofobi una forma di patologia. Il neologismo da lui creato riconosceva due forme di omofobia. Il primo caso, che lui chiamava “Omofobia esterna” descrive l’odio irrazionale che la persona eterosessuale prova nei confronti di quella omosessuale, mentre “l'omofobia interna” racchiude l’atteggiamento di disprezzo che gli omosessuali rivolgono a se stessi a causa dello stigma sociale subita.
Nonostante il blocco dei colleghi, Weinberg andò avanti e evidenziò sempre di più la disfunzione sociale dell’omofobia indicandola come “fobia operante come un pregiudizio”, quindi benché non riconosciuta come fobia vera e propria, al suo interno gravitano pensieri, idee, opinioni che provocano emozioni quali ansia, paura, disgusto, disagio, rabbia, ostilità nei confronti delle persone omosessuali.
Nel 1972 scrisse il libro “Society and the Healthy Homosexual “dove non solo affermava il principio della non patologia nell’omosessualità, ma esortando i colleghi e tutto il mondo “psy” a superare la barriera del pregiudizio. Considerate che il suo concetto divenne così importante da spronare l'APA (American Psychiatric Association, ovvero l'associazione di psichiatri che redige il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) a de-patologizzare l’omosessualità, togliendo dal manuale “l’omosessualità egosintonica”, ma continuando a considerare “l’omosessualità egodistonica” come disturbo mentale. Nel 1990 venne approvata la completa eliminazione dalla lista dei disturbi mentali e il 17 maggio, l’OMS accettò e condivise questa scelta, depennandola anche dall’International Classification of Diseases.
Grazie a Weinberg, non solo l’omosessualità non era il problema, ma lo è invece l'omofobia e riconoscerla significava superare l’idea della bizzarria, della malattia e della “non normalità” nell’omosessualità, per dare valore alla persona per ciò che è realmente: una persona.
Weinbeg continuò la sua opera di divulgazione e conoscenza, fino al 2017 anno della sua morte. Purtroppo, in Italia non è mai arrivata una sua opera tradotta e tranne qualche sito internet che ne riconosce il valore, è visto come goccia nel mare della battaglia dei diritti identitari.