Non si spengono i riflettori sugli arresti in Francia dei nove ex brigatisti e appartenenti alla sinistra extraparlamentare per i quali l’Italia da anni chiede l’estradizione. Salutato come un momento storico, con il passare delle ore si sta però riducendo alla sfera puramente simbolica. Anche perché per loro il giudice ha già deciso vari gradi di libertà vigilata. Resta ancora ricercato soltanto Maurizio Di Marzio.
Per comprendere meglio che cosa rappresenta questo strascico degli Anni di Piombo – da un punto di vista molto aderente a quello degli arrestati a Parigi -, abbiamo avuto la possibilità di intervistare Geraldina Colotti. Nata a Ventimiglia, classe 1956, è stata militante delle Brigate Rosse e per questo nel 1987 è stata condannata a 27 anni di carcere. Nell’aprile del 1996 ha ottenuto il permesso al lavoro esterno presso la redazione del quotidiano “il Manifesto”, e successivamente il regime di semilibertà. In seguito, ha pubblicato libri di poesie, un romanzo e i racconti Certificato di esistenza in vita, in cui ha descritto le dure condizioni del carcere e le torture che verrebbero inflitte ai prigionieri politici. Non si è mai pentita. Non ha mai ritrattato.
A fronte della sua storia personale, sull’operazione francese denominata Ombre Rosse, quindi, ha pochi dubbi: “Si tratta di una emergenza infinita tirata fuori a seconda del bisogno”. Da parte "di chi ha fatto carriera sulle nostre vite, su centinaia di ergastoli e processi politici che sono stati un grande affare. E loro continuano a dispetto della logica a lanciare fango sulla nostra dignità di rivoluzionari. La borghesia ne ha ancora paura”. Non terroristi ma rivoluzionari, ha tenuto a precisare: “Il terrorismo in Italia c’è stato: quello fascista e stragista”. Così come ha voluto chiarire la sua visione sulle vittime: “Non si è trattato di una faccenda di vittime e di carnefici, ma di una guerra di classe, di uno scontro per il potere”. Anche per questo, convinta di un “uso della magistratura contro i movimenti” in quest’ultima operazione vede “il messaggio rivolto ai giovani: non ci provate”.
Come hai interpretato gli arresti in Francia?
Si tratta di un’”emergenza” infinita, che viene tirata fuori a seconda del “bisogno”, nei momenti di particolare instabilità. Siamo in piena crisi pandemica, un capitolo in più della crisi strutturale del capitalismo che lascerà senza lavoro milioni di persone in tutto il mondo. Occorre cooptare i settori popolari intorno a false bandiere come quella della sempiterna “unità nazionale contro il terrorismo”, buona per tutte le stagioni. Lo abbiamo visto con la vergognosa “caccia” a Cesare Battisti da parte dell’ex ministro dell’Interno che si metteva le divise di tutti i corpi di polizia per imprimere un segno preciso alla società italiana. Poi è stato riportato a più miti consigli, come avviene sempre nella storia: la borghesia prima si serve del fascismo, poi quando esagera se ne distanzia. Ma è accaduto un altro fatto altrettanto preoccupante.
Quale?
Il giorno prima dell’arresto di Battisti, in tanti hanno commemorato De André, cantando i suoi versi libertari contro il carcere, versi di rivolta contro la società borghese. Il giorno dopo, però, si sono trasformati in una muta inferocita giustizialista. Pare che alla “balcanizzazione” del mondo, sia seguita anche quella delle coscienze, dei cervelli, che agiscono in modo scomposto senza più conseguenza e responsabilità.
E qual è il ruolo della Francia? Perché sono passati dalla “Dottrina Mitterrand” a questa retata?
Di sicuro vi sono motivi politici di carattere interno e, più in generale di ridefinizione dei margini della nuova società disciplinare. La Francia è un paese coloniale, che si comporta in modo imperialista all’esterno, partecipando all’economia di guerra e allo spoglio delle risorse del sud globale, e agisce in modo coloniale anche al suo interno, come si vede dagli scoppi di rabbia delle sue periferie. Gli attentati di matrice islamista sono frequenti, l’estrema destra di Marine Le Pen soffia sul fuoco della xenofobia per aumentare i consensi e cerca di far apparire Macron un chierichetto al riguardo. C’era bisogno di mostrare i muscoli con poca spesa.
In Italia questi arresti sono stati salutati come un momento storico.
Un gruppo di ultra sessantenni e un quasi ottantenne malato che erano lì da anni a lavorare, apertamente, che pericolo potevano rappresentare? Non sono mica tornati a combattere come abbiamo fatto noi anche nel pieno della sconfitta delle organizzazioni armate, finendo poi per essere arrestati? L’unica cosa che il nemico ha sempre dovuto riconoscere alla guerriglia, è stata la coerenza: abbiamo sempre messo in pratica quel che dicevamo. Quindi, di quale momento storico si vuol parlare? È grottesco.
Ho sentito un tuo intervento radiofonico e hai parlato di “uso della magistratura contro i movimenti. Contro chi cerca di cambiare le cose”.
Se dovessimo pensare solo alla nostra esperienza in quel ciclo di lotta vissuto nel Novecento, e che si è concluso, se non vi fossero conseguenze generali che pesano sul presente perché quel periodo così importante non è stato elaborato collettivamente, si potrebbe dire “chi se ne frega”. La maggior parte di noi è anziana, molti sono morti, altri non sono più comunisti, quelle organizzazioni armate sono state sconfitte. Ha vinto la visione forcaiola da parte di persone che hanno fatto carriera sulle nostre vite, su centinaia di ergastoli e processi politici che sono stati un grande affare. E loro continuano a dispetto della logica a lanciare fango sulla nostra dignità di rivoluzionari. Invece in quel ciclo storico, quando in Italia c’era il Partito Comunista più forte d’Europa ma anche l’estrema sinistra più forte d’Europa, si è giocata una partita determinante, che non si può liquidare con i tribunali e la dietrologia. La borghesia ne ha ancora paura. Non è un caso che la nostra storia e il ritornello “tornano gli anni di piombo” vengono usati come “deterrente” contro chi, pur non avendo legami diretti con quella storia, cerca di combattere questo sistema ingiusto e feroce.
Quindi eravate dei rivoluzionari, non dei terroristi?
Certo! Il terrorismo in Italia c’è stato: quello fascista e stragista che non è mai andato in galera. Abbiamo agito in un contesto generale in cui i rivoluzionari come Che Guevara cercavano di infiammare le praterie. Purtroppo, non ce l’abbiamo fatta e quello splendido rivoluzionario è stato trasformato in una icona inoffensiva, addirittura pacifista, in questo paese senza memoria.
Mi pare che quella lotta tu la senta ancora forte.
Gli ideali sono rimasti gli stessi. Oggi più che mai, il socialismo è nelle cose, è l’unica bandiera efficace e necessaria per il riscatto delle classi popolari. La pandemia lo ha dimostrato una volta di più. Per questo è importate ricorrere alla storia recente, la storia del comunismo e dei tentativi rivoluzionari che, quanto più hanno volato alto, quanto più hanno fatto davvero paura alla borghesia, tantopiù sono stati repressi, tantopiù devono essere dannati e demonizzati. La borghesia, quando vince, ricomincia a reprimere chi viene dopo dal punto più alto in cui ha represso i movimenti precedenti. E la prima cosa che fa, distrugge la memoria storica delle giovani generazioni. E, come in questa retata francese, il messaggio rivolto ai giovani è: “non ci provate”. Basta ricordare Genova, di cui quest’anno ricorre il ventennale. Una manifestazione pacifica nella quale è stato ucciso un ragazzo, Carlo Giuliani, si è torturato nella caserma di Bolzaneto. Da dove arrivavano quelle torture, quel gigantesco “riflesso d’ordine”? Dal ciclo di lotta precedente, durante il quale si è torturato e anche ucciso a sangue freddo, come in Via Fracchia, a Genova. La democrazia borghese, quando viene attaccato lo Stato, anche se a mani nude, mostra la sua vera natura
Quindi dalle Brigate Rosse ai movimenti successivi di varia natura vedi un filo rosso? È solo la violenza della reazione che vi unisce?
Il filo rosso è quello della lotta di classe, che cambia forma e protagonisti, ma lascia intatte le ragioni, gli obiettivi e il nemico da combattere. La borghesia ce l’ha ben presente, e cerca di imporsi anche a livello simbolico, di cooptare gli oppressi attraverso i suoi apparati ideologici di controllo. Ieri, a vergognarsi erano i fascisti e i repressori, perché l’egemonia era quella della classe operaia rivoluzionaria. Oggi, il coltello dalla parte del manico, anche nel simbolico, ce l’ha la borghesia. Nel tentativo di resettaggio del capitalismo che cerca di produrre una nuova fase di accumulazione, tutto l’armamentario della stagione dell’”emergenza” – dissociazione, pentitismo, dietrologia, vittimizzazione – viene riciclato per formattare una nuova società disciplinare, che ha come motore la filosofia dell’impresa e l’economia di guerra. In questo quadro, anche la retata di Parigi e la montatura che ne segue, serve a far credere che esista una “giustizia giusta contro i cattivi totali”, e uno Stato forte, quando il fallimento delle sue politiche è evidenziato dalla grande ingiustizia sociale.
In passato Barbara Balzerani, altra appartenente alle Brigate Rosse, ha fatto scalpore quando disse: “La vittima è diventato un mestiere...". Recentemente, il cantautore Gianfranco Manfredi, in una nostra intervista ha dichiarato: “Quale sistema legale consente che sul giudizio pesino i familiari? Quello islamico”. Sei d’accordo con loro?
Ancora una volta, occorre riferirsi alla storia del secolo scorso, il secolo delle rivoluzioni. Occorre chiamare le cose con il proprio nome. Non si è trattato e non si tratta di una faccenda di vittime e di carnefici, ma di una guerra di classe, di uno scontro per il potere. Fino alla caduta dell’Unione Sovietica, questo era un dato acquisito anche nelle grandi istituzioni internazionali. Basta riascoltare i discorsi di Che Guevara o di Fidel Castro all’Onu. E persino negli anni ’80 il discorso sulla Palestina di Craxi, quando ancora l’Italia aveva una posizione diversa sul Medio Oriente. Dopo il sequestro dell’Achille Lauro, per quelle parole oggi lo metterebbero in carcere. E sto parlando di Craxi… Poi, si è passati al paradigma della vittima, all’operaio ridotto a caso umano, alla retorica dei diritti umani, eccetera. Un furto di dignità degli oppressi che è andato di pari con il furto di linguaggio per impedire ai nuovi movimenti di ri-declinare la rabbia e la rivolta. Li si spinge a interiorizzare la censura. E quando ad autocensurarsi sono i giovani, gli artisti, gli intellettuali, una società diventa arida e cattiva. Nel secolo scorso, anche in Italia, c’è stata una guerra di classe tra il comunismo e le forze del grande capitale internazionale che hanno messo in campo ogni mezzo possibile per vincere: lo abbiamo visto in America Latina, con i dittatori al soldo di Washington, i desaparecidos, le torture, il Plan Condor. In Italia con le stragi, i tentativi di colpo di stato, una struttura come Gladio che accompagnava le trame occulte di allora. Il proletariato si organizzava, anche con la guerriglia. I colpi si davano e si prendevano. I morti c’erano da entrambe le parti.
Perché la sinistra avrebbe rinunciato a dialogare con voi e con i movimenti successivi?
Perché la famosa corsa al centro ha reso sempre più simili i suoi programmi a quelli della destra. Perché ci vogliono far credere che non esistano alternative al capitalismo, per cui l’esempio di chi si è speso senza riserve per cercarla, è assai disturbante. Si devono inventare storie, presunti scheletri negli armadi, presunti misteri ancora da “scoprire”, eccetera. Ma ci sono quintali di atti processuali, testimonianze dei pentiti, centinaia di ergastoli comminati, oltre 5.000 prigionieri politici. Sono tutti da buttar via? Uno dei massimi dirigenti delle Brigate Rosse, Mario Moretti, sta ancora in carcere dal 1981.
C’è chi lo definisce un infiltrato…
Ovviamente, è una calunnia schifosa, priva di fondamento su un rivoluzionario specchiato che sta facendo più galera di Mandela. Che cosa ci avrebbe guadagnato?