Se fate a un milanese (o comunque a una persona che vive a Milano da più di una settimana) la domanda “qual è il pollo arrosto più buono della città?”, due sono le possibilità: 1) mente 2) risponde “Giannasi”.
Nella capitale meneghina che negli ultimi 20 anni ha cambiato faccia più volte, premendo il pedale dell’acceleratore con l’Expo 2015 fino al drammatico rallentamento post lockdown, pochi sono gli esercizi commerciali assurti ad attributi iconografici del tessuto sociale e cittadino, monumenti imperituri della grandezza e industriosità milanese al pari della Madonnina o del Castello Sforzesco: penso ai Panzerotti Luini, al Bar Quadronno ma più di tutti a Giannasi in Piazza Buozzi.
Un uomo educato, dai modi antichi e gentili, elusivo e schivo ma allo stesso tempo vanesio e dandy
Strategicamente situato a metà strada tra Porta Romana e Piazza Lodi, questo chiosco dal 1967 è un punto di riferimento per tutti gli amanti di carne avicola, in grado di sfornare agilmente 700 polli arrosto al giorno accompagnati da rosticceria assortita. Le quantità sono impressionanti ma lo è ancora di più la qualità: la croccantezza e sapidità del pollo arrosto di Giannasi (mai troppo asciutto né bruciato) è ormai materia di narrazioni omeriche in tutta Italia. Essendo nato e cresciuto non troppo distante, negli anni 90 quando avevo voglia di carne ma non volevo convivere col senso di colpa prodotto dall’ingerimento di un Crispy McBacon andavo da Giannasi: il pollo con le patate al forno, mangiato direttamente dalla vaschetta in una panchina di Piazza Buozzi, era più buono, sano e costava meno. In più mi faceva sentire come un Gallo nella pagina finale degli albi di Asterix e Obelix, quella con la scena del banchetto. Leggevo l’insegna sul chiosco in mattoni rossi: era bianca su campo verde (da allora è stata cambiata in quella attuale con scritte verdi su campo bianco) e recitava “DORANDO GIANNASI DAL 1967”.
Dorando, più che un nome, mi sembrava un gerundio legato all’arte di friggere alla perfezione i cibi, un nome profetico. Era senza dubbio lui l’uomo dietro a questa grandiosa macchina da polli (e da soldi). Flashforward al 2000: l’anno in cui muovo i primi malfermi passi nel mondo della tv iniziando a scrivere i primi programmini è anche l’anno in cui conosco una giovane stylist di nome Paola Giannasi. Ovviamente appena la incontro DEVO chiederglielo: “sei per caso parente di Giannasi quello dei polli in Piazza Buozzi?”. “È mio padre” risponde lei. Da allora molte cose sono cambiate. Quasi tutte, tranne ovviamente Giannasi. Paola ha (saggiamente) mollato la moda e da 10 anni lavora al chiosco del padre, che, alla ragguardevole età di 73 anni, non ne vuole sapere di lasciare il timone. Dorando ha rilasciato negli anni poche interviste, nelle quali dice sostanzialmente le stesse cose: è un uomo educato, dai modi antichi e gentili, elusivo e schivo ma allo stesso tempo vanesio e dandy (è il testimonial della recente linea di merchandise di Giannasi). Quando mi è stata paventata la possibilità di passare una mattinata con lui a parlare della sua vita e del miglior chiosco di polli arrosto di Milano non potevo tirarmi indietro.
Dorando mi attende all’ingresso posteriore del chiosco: è minuto, un incrocio tra Roy Scheider (l’indimeticabile protagonista de Lo Squalo) e il nonno di Adrien Brody, ed è elegantissimo: camicia bianca, cravatta gialla, doppiopetto azzurro e l’immancabile Borsalino calcato in testa. Ad abbassare il livello ci penso io col mio styling “spacciatore di anfetamine a Miami nel 1985”: camicia hawaii (presa però a Reykjavik) e mocassino Haruta giapponese nero. Dorando si muove lentamente, facendomi strada nell’ufficio di fronte al chiosco: il luogo dove parleremo per circa due ore. Questo è il risultato di quella chiacchierata.
Vado al chiosco alle 7 del mattino, con la giacca che mi piace, una bella cravatta, il Corriere sotto braccio. Entro e sono contento
Dorando, cominciamo con l’ovvio: come si spiega il successo cinquantennale del suo chiosco?
“Non credo ci sia niente di speciale. Io sono stato educato all’onestà. Ho fatto tanti sbagli in vita mia, ma mai ho mancato di rispetto al prossimo. Faccio l’esercente: una volta che stabilisco il prezzo (e lo stabilisco io), ho il dovere di dare al cliente la migliore qualità possibile. Non ci riuscirò tutti i giorni, ma ci proverò. E banalmente, se uno agisce secondo questo semplice principio per 53 anni, alla fine in città diventa molto conosciuto e a tratti stimato”.
Lei non è figlio d’arte, giusto?
“Giusto. Sono nato in un paese dell’alto appennino tosco emiliano, Civago. Dalle mie parti (ma credo ovunque nel dopoguerra) tutti erano votati alla laboriosità: i genitori ci insegnavano ad essere educati, silenziosi e soprattutto a lavorare moltissime ore senza lamentarci. Mia sorella maggiore lavorava a Milano in una polleria e pescheria in Via Teodosio al 3. Quando compii 14 anni feci la mia piccola valigia e la raggiunsi”.
Come fu l’impatto con la città?
“I Muccioli, i proprietari del negozio, mi vollero bene da subito, trattandomi come un figlio. Credo dipendesse dal fatto che lavoravo moltissimo, dalle 4 del mattino fino a tarda sera. Ma erano anziani e dopo qualche anno la loro attività volse al termine”.
E non pensò di rilevare assieme a sua sorella il negozio?
“Io ero troppo giovane e impreparato: l’idea di affrontare un’avventura imprenditoriale non mi passava nemmeno per la testa. Anche Graziella, mia sorella, era spaventata. Dopo qualche anno di lavoro in altri negozi furono sempre i Muccioli a darci lo stimolo per metterci in proprio, trovandoci un posto in cui iniziare. Era un chiosco nato a cavallo tra le due guerre che il Comune di Milano usava, assieme ad altri in città, per vendere frutta e verdura a prezzi calmierati. Era un chiosco di 38 metri quadri e, quando lo rilevammo, nel 1966, sospetto fosse chiuso da vari decenni. Ci volle un anno di lavori prima di aprire. Facemmo tutto io e mia sorella. L’idea era quella di aprire una polleria e pescheria sul modello di quella in Via Teodosio”.
Vuole sapere la verità? Io ho solo lavorato. A parte questo non ho nessun merito
Ma quindi Giannasi inizialmente era una polleria e pescheria?
“No, perché, non ricordo per quale motivo, la licenza per la pescheria la chiedemmo ma non ce la diedero. Quindi ci occupammo solo di polli. Aprimmo la mattina presto del 2 maggio del 1967”.
Com’erano Piazza Buozzi e Corso Lodi nel 1967?
“Sorprendentemente questa zona è cambiata pochissimo dal punto di vista urbanistico. Non c’era ovviamente il metrò ma i tram sì, e si fermavano proprio davanti al chiosco. Era olio nell’insalata per noi: la clientela era esclusivamente femminile, mamme e nonne, che compravano pollame e tacchini esclusivamente crudi, latte e uova. Uomini non ce n’erano: sospetto che negli anni 60 il maschi italiano si vergognasse a farsi vedere mentre comprava le uova”.
Quante persone servite, oggi, in un giorno?
“In un giorno buono anche 1.300 persone”.
Ma qual’è stata “la svolta”? La scintilla che accende i forni che cuoceranno i polli leggendari del suo chiosco?
“Debbo dire che non ho nessun merito in questo. È tutto avvenuto grazie alle sollecitazioni dei nostri clienti. Prima tenevamo polli, tacchini, selvaggina, lepri, cinghiali. La selvaggina negli anni 80 iniziarono a non volerla più, invece ci chiedevano con sempre più insistenza la carne bovina e suina. Ad un certo punto decisi di sottrarre spazio al pollame per darlo alla carne bovina e suina, che abbiamo venduto per tanti anni. Perché è vero che ero un commerciante ma il chiosco rifletteva anche le mie preferenze in fatto alimentare. I polli li ho sempre amati, li maneggiavo fin da ragazzino. La carne bovina invece ho iniziato a lavorarla a 40 anni e sinceramente è un lavoro per il quale non sono mai stato portato. Tant’è che poi abbiamo smesso. I polli cotti iniziarono a chiederceli alla fine degli anni 80. Le donne che 15 anni prima li volevano crudi adesso lavoravano e non avevano più molto tempo per stare ai fornelli. E così elaborai una ricetta”.
Ecco, la catena di lavorazione del pollo Giannasi mi sembra molto simile a quella utilizzata dai fratelli McDonald’s nel film “The Founder”, prima che arrivi Ray Kroc e trasformi un singolo chiosco in una megacorporation: un meccanismo ben oliato per dare a getto continuo un prodotto di qualità a fronte di una domanda sempre crescente.
“Questo, ammetto, fu un colpo di genio abbastanza ‘elementare’. Io non sono un cuoco. Nessuno nel mio chiosco lo è. Sappiamo cucinare quello che proponiamo perché ci siamo arrivati con l’esperienza. Una volta trovato il mix di spezie giusto (rosmarino, salvia, aglio, sale, ecc.) pensai che dovesse essere standardizzato. Quindi creai un mix e un misurino grazie al quale chiunque potesse condire i polli allo stesso modo. Tutto abbastanza elementare. Ovviamente però il discorso funziona se i polli sono della stessa misura, e l’unico modo per avere sempre polli più o meno uguali è quello di rivolgersi a una grande azienda. Sin dall’inizio mi sono rifornito da Aia”.
Immagino che in Aia, nei corridoi dell’azienda, ci siano dei busti in ottone con la sua effigie…
“Io spero di no! (ride) A parte tutto, non ho mai avuto problemi con loro. Del resto non potrei lavorare con allevatori più piccoli: le dimensioni dei polli varierebbero troppo, e in più non sarebbero in grado di soddisfare la nostra domanda. Ogni giorno qui arrivano polli freschi e di qualità, per un totale che si aggira intorno ai 4/5000 polli a settimana”.
Quando si è accorto che le cose stavano andando bene?
“Ad un certo punto cominciavano a spuntare clienti che dicevano: ‘Lei è un’istituzione!’. Oppure ‘questo è il pollo migliore di Milano’. Dopo qualche anno che andava avanti questa storia cominciai a chiedermi se non ci fosse qualcosa di vero. Ma vuole sapere la verità? Io ho solo lavorato. A parte questo non ho nessun merito. Hanno fatto quasi tutto gli altri. Sin dall’inizio, hanno dato il via a una serie di eventi che mi hanno portato dove sono oggi”.
Aprire un secondo chiosco? Alla mia veneranda età, rischio di dover correre da un negozio all’altro, dovermi preoccupare. Ma so che prima o poi lo apriremo
Al chiosco viene anche qualche cliente famoso?
“Qualcuno si, ma vengono soprattutto per amicizia”.
Possiamo darci del tu?
“Abbiamo iniziato con il lei e alla mia età faccio fatica a cambiare abitudini”.
Lei ha molti amici Dorando?
“No. Vede, io sono fondamentalmente un timido, parlo con lei perché mi stimola e mi fa piacere. Ma in generale non sono molto espansivo”.
È sicuramente così, anche se a me sembra che lei oscilli tra una vita lontano dai riflettori, molto umile, e un certo dandismo: sua figlia Paola mi raccontava quando veniva al chiosco con una Harley Davidson dorata…
“Guardi, ho lavorato tutta la mia vita, e non ho ancora smesso. Ma in anni recenti ho sviluppato un gusto per le cose belle. Mi piacciono le Porsche, per esempio. Ne ho due: una Spider e un coupé GTS. Non mi interessa andare veloce, né sfoggiarle. Vengo da una famiglia modesta: io non ho mai fatto la fame ma per i miei fratelli più grandi… poco ci mancò. Oggi viviamo in un mondo dove imperversano invidia e la frustrazione. Io ci ho messo tanto tempo per capire che era importante anche stare bene con sé stessi… concedersi, dopo decenni di lavoro durissimo, qualche capriccio. La mia prima Porsche l’ho comprata che avevo sessant’anni. Anche se, come sappiamo, si sta bene anche senza Porsche. Ma le auto sono la mia passione”.
La capisco, io ho 17 chitarre e nemmeno una band in cui suonarle. Ma sono oggetti che mi piacciono e ho faticato per averli (anche se la maggior parte hanno uno scarsissimo valore). Comunque, per Giannasi la consacrazione è arrivata: Cavaliere del Lavoro nel 1990 e Ambrogio d’Oro nel 2010. Come si è sentito?
“La nomina a Cavaliere del Lavoro non la ricordo con piacere perché avvenne in uno dei periodi più brutti della mia vita: mia moglie era molto malata e io, sinceramente, non avevo tempo per pensare ad altro. Quando, 20 anni dopo, mi telefonarono per l’Ambrogino, fu molto emozionante e totalmente inaspettato. Credo me l’abbiano dato soprattutto per il mio impegno con l’AIRC”.
Quando, qualche anno fa, ho visto sulle fiancate di innumerevoli tram, bus e filovie la scritta Giannasi e sui social gente che indossava magliette e cappellini con il logo del mio chiosco preferito, ammetto di aver provato un sentimento ambivalente: da un lato ero contento che qualcosa che apparteneva alla mia adolescenza conoscesse grande popolarità, dall’altro mi sentivo un pò defraudato di un pezzo della mia zona, come quando scopri una caletta sul mare e quando ci torni l’anno dopo ci trovi uno stabilimento con mille persone.
“(ride) L’idea del merchandising è venuta a mia figlia Paola e io ho accettato di buon grado. Sono d’accordo su molte cose che mi propongono”.
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Tranne quella di aprire un secondo chiosco… in questo mi ricorda un pò Jiro Ono, il ferreo 94enne al timone di Sukiyabashi Jiro, minuscolo ristorante di sushi da soli sette posti, a Tokyo, considerato il migliore del mondo nella sua categoria, protagonista del bellissimo docu Jiro Dreams of Sushi del 2011. Un Wolfgang Puck o un Gordon Ramsay qualunque avrebbero capitalizzato la fama pubblicizzando soia o bacchette, aprendo ristoranti satellite, vendendo nighiri che portano la sua firma a catene di supermercati. Nulla di tutto questo. Jiro, come una tartaruga inossidabile, ogni giorno da 60 anni è dietro il bancone del suo ristorante: è la sua vita, è lì che lui deve essere.
“Sapesse quante volte mi è stato chiesto di aprire una seconda filiale… mia figlia me lo chiede da 10 anni ma io continuo a non cedere: chissà se tra 10 anni avrò ancora la forza di oppormi (ride). Le spiego: ogni mattina io vado al chiosco. Penso, anzi sono sicuro, che il mio lavoro sia abbastanza utile se non indispensabile lì. Ci vado alle 7 del mattino, con la giacca che mi piace, una bella cravatta, il Corriere sotto braccio. Entro al chiosco e sono contento. Se ne apro un secondo, alla mia veneranda età, rischio di dover correre da un negozio all’altro, dovermi preoccupare, non riuscire a mettermi la cravatta… e ho cercato di fare questo solo per egoismo. Ma so che prima o poi lo apriremo. Paola se lo merita. L’importante è non dimenticare mai quello che è stato fatto finora e garantire la stessa qualità a cui abbiamo abituato i nostri clienti da 53 anni”.
Dorando, ha qualche rimpianto?
“Non in particolare. Ho avuto la fortuna di avere una bella famiglia: mia moglie era una persona molto per bene, molto più intelligente di me. Le sono sempre stato fedele ma ho dedicato tutta la mia vita a lavorare, lavorare, lavorare: il lavoro ci avrebbe permesso di stare bene, di comprare una bella casa. Lei mi ha sempre rimproverato il fatto che, per stare al chiosco, latitassi con le mie figlie. Sono cresciute senza che me rendessi conto. In questo ho sbagliato, perché avrei potuto dedicare un po’ di tempo in più a lei e alle mie figlie e gli affari non ne avrebbero risentito ma sostenevo di dover lavorare, tanto alle bambine avrebbe pensato lei. Ovviamente queste cose mi sembrano evidenti adesso, allora no…”.
La capisco benissimo. Quand’è che appenderà lo spiedo al chiodo e smetterà di andare al chiosco?
“Quando non riuscirò più a camminare o non ci starò più con la testa. E potrebbe succedere da un momento all’altro (ride compiaciuto)”.
Dorando a questo punto mi saluta e si alza, fluttuando verso casa. Lo guardo scomparire mentre Paola, sua figlia, mi dice “Domani lo abbiamo mandato in weekend forzato a Civago: fosse per lui non se ne andrebbe mai dal chiosco”. Mentre aspetto di essere servito (ho preso il numero 315) penso al fatto che Dorando Giannasi è proprio come Jiro Ono: totale e incondizionata dedizione alla propria arte, sia essa un omakase di sushi o un pollo allo spiedo con patate al forno.