Diobo’. Lo dicono in Romagna e pure un po’ nelle Marche, in quel pezzo di terra che di piloti ne ha fatti nascere tanti e ne ha allevati ancora di più. E’ un po’ a cavallo tra l’imprecazione e la preghiera, tra il ribellarsi e l’affidarsi: è intensa, proprio perché colma di estremo, ma di quell’estremo che non è mai troppo. E questa mattina, “Diobo’, lo ha detto Marco Bezzecchi, con quella semplicità che arriva violentissima. Facendo partire l’associazione anche nella testa di quelli che certe associazioni, non fosse altro che per rispetto, non le hanno amate mai, o che hanno semplicemente rifiutato di farle. Anche quelli che non hanno mai fatto riferimento a un modo di fare scanzonato, ai ricci incasinati, ai giri a vita persa e le cadute di troppo, al muoversi dinoccolato e a quell’aria da eterno sfasato che ha il Bez e che aveva pure il Sic, oggi, davanti a quel Diobo’, non hanno potuto non pensarci ancora. Come se una parola che nel paddock si sente spesso, Diobo’, fosse stata nuovamente pronunciata in un modo che non sentivamo da dieci anni e poco più di undici mesi. Dolcezza e amarezza: l’eredità del Diobo’ è stata assegnata oggi, 1 ottobre 2022, a Buriram in Thailandia, a venti giorni esatti da un undicesimo anniversario. Che ci piaccia o no.
Eredità, però, è una parola che evoca fine. Troncatura. Invece - in quel Diobo’ che è passato definitivamente di bocca - la paventata “mezzanotte della notte del mondo” non c’è neanche a volerla cercare. Sì ok, Valentino Rossi ha smesso, la MotoGP sta passando un brutto momento e di pubblico se ne vede sempre di meno, ma non è finito proprio niente. Con buona pace degli amanti dei tramonti e di quelli che li evocano vedendoli ovunque. Con buona pace delle eredità. Perché nell’abbraccio che è arrivato poco dopo, quello tra il Bez e Pecco Bagnaia, è diventato chiaro che non c’è un nuovo inizio, non c’è un ricominciare, ma c’è l’andare avanti. Fiorire è il colpo di culo (per chi crede è disegno di Dio), rifiorire è il vero talento. Dentro lo stesso inizio, che è quello di sempre, grazie a troncature che, in verità, sono state potature. Il Bez e Pecco sono amici e qualche giorno fa Bezzecchi l’ha pure detto che per Bagnaia si spenderebbe un po’ di più, tirandosi dietro anche qualche nemico che lo ha tacciato di non sportività. Sono amici come sono amici i piloti oggi. E qui, probabilmente, sta una chiave. Perché i piloti di una volta avevano storie differenti, magari più di strada, di scazzottate e vita mia con morte tua, mentre quelli di adesso non possono non essere amici se non altro perché hanno condiviso più o meno tutti la stessa storia. La storia di notti sui furgoni, di famiglie che facevano sacrifici pazzeschi per farli correre, di padri appassionati – e quasi sempre pure un po’ stravaganti e da metabolizzare guardando il positivo - che hanno esercitato la genitorialità col “metodo polso destro (e Diobo’)”. Che non è scientificamente riconosciuto, ma è una figata.
Sono amici tutti, i piloti di oggi, perché quasi sempre condividono un passato uguale. Di sacrifici e intensità, di storie che magari non si potrebbero manco raccontare. Prima era diverso, ma non è detto che fosse meglio e magari questo basta per spiegare perché oggi sembrano tutti volersi così troppo bene. Che, sia inteso, a volte pare troppo anche a noi. E poi, tra gli amici, ci sono quelli ancora più amici. Come Pecco e il Bez. Si allenano insieme, condividono tempo e, vuoi o non vuoi, si spartiscono una eredità che da un lato inorgoglisce e dall’altro pesa di brutto. Perchè loro, insieme a Franco Morbidelli, Luca Marini e gli altri dell’Academy, portano ancora in pista il 46. E magari lo portano in pista, come nel caso di Pecco, giocandosi un mondiale, come in un paradosso un po’ perverso, con l’altro "erede" del 46: quel Fabio Quartararo a cui è stata affidata la moto con cui il 46 ha scritto la storia. Potature e rifioriture. Sono più amici il Bez, Pecco e gli altri dell’Academy perché, oltre alla storia che tutti i piloti condividono, condividono pure un’altra storia che era iniziata proprio con Marco Simoncelli: il giovane pilota che “ha fatto da generatore di una idea”, da “cavia” per l’Academy. Diobo’: potature (anche per mano del destino) e rifioriture. Dentro un gioco di padri veri e padri “professionali”, di figli veri e piloti che sono diventati e che oggi non sono chiamati a riscrivere una storia, ma a proseguirla. Intensità e persistenza. Senza resistere, senza insistere. Magari con quella vena di leggerezza che probabilmente è il concime più potente. Evitando di scomodare quella che i superficiali chiamano “riconoscenza” perché non c’entra niente e è una parola senza poesia, evitando di lasciarsi prendere da deliri di instoppabilità che, invece, caratterizzano chi è capace solo di pensiero (debole) indotto (quasi sempre da chi è avido di intensità o in malafede).
Anche il giallo di Vale, che oggi rifiorisce in MotoGP nei tanti colori di tutti gli altri piloti (non solo di quelli dell’Academy) è stato a sua volta una rifioritura. E, a volerci fare caso, ce l’ha fatto notare il Dottorcosta in una intervista sulla messa alla porta della sua Clinica Mobile e ce l'ha fatto notare - forse involontariamente e con quella leggerezza che è concime miracoloso - proprio Valentino Rossi, appena qualche giorno fa. Quando? Quando ha pubblicato sul suo profilo Instagram una foto potentissima con un commento secco, didascalico, ma ancora più potente. La foto di lui da bambino, con i pantaloni a costine e la maglia con il 7 di Barry Sheene (un altro che c’era prima e che dopo di lui sarebbe stata la fine), sopra una minimoto, impegnato in qualcosa di molto simile a una piega moderna col corpo in fuori; “Anno 1984, test privato nella casa di Graziano, Tavullia, foto di Stefania” – c’è scritto nel commento che accompagna quell’immagine. Storia che continuava e diventa storia a modo suo, per ridiventare storie, questa volta a modo loro (dei piloti). Continuare, quindi, senza starsi a chiedere se è l’ora del tramonto o il momento dell’alba, se è ancora l’inizio o l’inizio è ancora, ma solo facendo l’unica cosa che produce davvero: esserci nel miglior modo possibile, anche se diverso. Accettando che ogni storia, anche quella delle corse in moto, è comunque ancora la stessa storia. Lasciando il verbo “troncare” al vocabolario di chi, per convenienza, per vergogna o per pochezza, punta a fiorire, dimenticando che, invece, è “potare” il verbo di chi vince, perché è il presupposto (anche quando avviene per mano del destino) del verbo “rifiorire”. Magari con nuovi colori, col dovere di farlo orgogliosamente a proprio modo.