Petricore. E’ una parola che non ha una definizione esatta, perché esprime un odore, una sensazione, uno stato. O anche un momento. Oltre che l’annuncio di un mutamento. C’è la pietra (pètra), nella sua radice, è c’è il sangue degli dei (ichor). Petricore è l’odore della pioggia quando è asciutto, è la sensazione che al sereno farà seguito il grigio, è la descrizione di qualcosa che sta per arrivare. La pioggia, appunto. Ma non la pioggia come tempesta, ma come condizione necessaria per lavare via, per passare oltre e ricominciare. Rifiorire, in qualche modo. Possibilmente a proprio modo. A “petricore” m’è venuto da pensarci giovedì a Misano, subito dopo il primo passo dentro il Marco Simoncelli World Circuit, nel primo giorno del GP di San Marino, mentre una chitarra elettrica provava l'Inno di Mameli. Un po’ perché sembrava che la pioggia arrivasse e se ne sentiva, appunto, quell’odore inconfondibile che viene giù dal cielo e su dall’asfalto; e un po’ perché questa volta sarebbe stata diversa da tutte le altre. Perché petricore descrive pure uno stato dell’anima. Malinconica come un giorno di pioggia dopo tanto tempo, riflessiva come chi ha solo da aspettare, ma comunque nuova e da vivere. Sì, il tema è sempre lo stesso: la prima senza Valentino Rossi, senza starci a mettere dentro pure le faccende personali, i simboli, gli amori persi e Misano come significato nella storia del motorsport, ma anche di ognuno di noi.
Asfalto al posto della pietra e sangue della passione al posto di quello degli dei. Petricore, appunto. Alla prima senza Vale, con la pioggia (che non è quella del meteo) che si annuncia, ma non arriva. Si annuncia per lavare via il passato senza dissolverlo e andare avanti con rinnovata freschezza, ma non ce la fa a arrivare davvero. Inutile negarlo e inutile stare a cercare giustificazioni: a Misano di gente se ne è vista poca. Nessuno pretendeva di vedere tutta quella che si è vista nel 2015, quando sui prati si faceva fatica a distinguere l’erba e la terra ha letteralmente tremato dopo la caduta di Jorge Lorenzo o la pesante cappella di Valentino Rossi (quel ritardo nel rientrare ai box che probabilmente gli costò il mondiale molto più di quanto glielo sia costato il presunto biscotto), ma così è stata poca davvero. Nonostante il Mugello avesse fatto da avvisaglia, nonostante ce l’aspettavamo un po’ tutti come si aspetta la pioggia quando c’è quell’odore lì. Petricore a pieni polmoni. Che non è detto che sia un male o che ci sia da preoccuparsi, è odore di cambiamento. Ma cè da dare una mano alla pioggia stessa. Senza soffrire troppo. Purché faccia in fretta. Perché faccia in fretta. Godendosi, ammesso che sia possibile, pure la malinconia e la sofferenza di un momento così.
Non ricordo bene dove, forse in un libro che è passato dal comodino qualche inverno fa, ma c’è una frase che è maledetta verità: “Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere amati più”. E’ la sofferenza che oggi sembra vivere la MotoGP. E, di contro, è anche l’inevitabile immenso piacere che può provare Valentino Rossi nel prendere coscienza, invece, di quanto ad essere ancora amato ci sia lui e lui e basta. Ma di sicuro non ne è contento, nessun pilota lo sarebbe, figuriamoci lui. A Misano il giallo era ancora ovunque e le bancarelle con la roba del 46 erano le uniche prese d’assalto, nonostante di temi a cui legarsi ce ne erano una valanga. Nonostante un mondiale apertissimo, una Ducati davanti insieme alle Aprilia, nonostante un Pecco in palla bestiale, nonostante i ragazzi della VR46 che sono andati forte fin dal venerdì, nonostante Morbidelli in attesa di resurrezione e nonostante la livrea delle Desmosedici della Gresini Racing da farsi scappare i lacrimoni solo a guardarle, per quanto erano belle e per quello che significavano. Nonostante il Dovi ai saluti. E’ un dato di fatto, non certo una critica verso Valentino o il Valentinesimo che ha imperversato nel motociclismo. Anzi, quella dovrebbe essere la pietra, la roccia da cui ripartire e da cui già arriva quell'odore lì. La bandiera gialla che si contrappone a quella bianca della resa. La bandiera gialla di chi non si arrende. A non arrendersi dev’essere la MotoGP e dev’essere chiunque ama il motorsport e le corse in moto.
Ma se la pietra c’è, a mancare è la linfa: il sangue degli dei. E viene prima da chiedersi chi sono gli dei della MotoGP. No, non è Carmelo Ezpeleta e non sono nemmeno i piloti. Gli dei sono quelli che fanno un mondo e il mondo della MotoGP lo facciamo tutti, non solo loro. C’è la necessità di dare una mano alla pioggia, serve che il petricore si faccia sempre più forte sotto i nostri nasi, ma per adesso c’è solo (ancora) la pietra. La roccia di Vale che non c’è più ma c’è ancora. La linfa dobbiamo mettercela tutti. I piloti provando a non cedere oltre a questa ingloriosa moda del politicamente corretto, gli organizzatori capendo una volta per tutti che certi prezzi le famiglie non possono più pagarli, i media raccontando più umanità e meno tecnica. Anima, muscoli, nervi, fuoco: velocità in una parola sola. Che poi è la sostanza di tutto. Ma ci siamo anche noi, gli appassionati: niente lacrime da passatisti, più linfa. Per dirla con uno slogan. La linfa di chi è pronto a un sapore differente, come critici d’arte che, per far bene il loro mestiere (sì, anche l’appassionato può essere un mestiere) devono sapersi calare nei panni dell’artista. Gli artisti, oggi, sono altri. Hanno altre facce, altre espressioni, altre storie e sono belle da matti perché raccontano di sacrifici, di padri e di figli che dormivano nei furgoni, di vite messe in gioco in nome del talento. Di limiti da cercare e andare oltre. Di arrivati e di sconfitti, di sopravvalutati e di sorprendenti. E Valentino non può essere sempre il paragone. Casomai Valentino è l’unità di misura a cui ricorrere a posteriori. Sono altri artisti, ma sono artisti. A cambiare, forse, dovremmo essere noi. Senza lasciare quella bandiera gialla, perché appunto è il simbolo di chi non si arrende, ma ricordandoci che l’opera di artisti diversi restituirà sempre sensazioni diverse. Che valgono lo stesso, magari valgono anche di più, ma sono, al limite, continuità e evoluzione. E qualche volta pure benefica rivoluzione.
“Il critico d’arte – scriveva anni fa Giovanni Gentile a Benedetto Croce – finchè non pervenga a mettersi nella situazione psicologica dell’artista, non può giudicare, perché non può intendere l’opera d’arte”. Insomma, non è questione di Sprint Race, non è questione solo di prezzi dei biglietti o di mancanza di personaggi, ma è questione pure di pubblico. Che siamo tutti noi. “Riproduciamo in noi lo stato dell’animo dell’artista – continua ancora quel passaggio della lettera di Gentile a Croce – lo stato, come condizione e presupposto dell’accordo tra i sentimenti di chi crea e ciò che crea, e poi potremo dire d’avere davanti a noi l’opera d’arte pura e semplice. Che è quella che vogliamo giudicare”. Vale anche per la MotoGP.