Il dovere ce l’ha nel cognome, come un presupposto che ne ha segnato la crescita e la carriera. Si, ok, nel cognome Andrea Dovizioso ha anche il vizio, ma il suo vizio è, appunto, quel dovere lì. Di provarci anche quando potrebbe bastare, di dimostrare sempre qualcosa, di sembrare sempre un pochetto di meno. Anche quando si è stati tanto, anche quando essere arrivati dove è arrivato il Dovi si fa passare più per un caso che per un percorso vero. Un percorso segnato proprio dal vizio del dovere. Perché di intemperanze non ne ha, di stravaganze da pilota mezzo matto nemmeno. La sua fama, semmai, è quella di lavoratore autentico, di secchionaccio che studia più degli altri e ci si mette con un senso di competizione che è quasi ossessione. Adesso, però, basta davvero. Quel vizio del dovere era tornato a farsi sentire alla fine della scorsa stagione, prima con gli ammiccamenti di Aprilia e poi con la proposta di Yamaha e del Team di Razlan Razali. Non sembrava convinto il Dovi, sembrava, appunto, uno che doveva. E ha obbedito a quella forza lì che lo ha spinto sempre, che lo ha aiutato pure tanto, ma che comunque ha avuto sempre le sembianze di un peso. Sì, ok, l’hanno pagato bene, ma non è certo per denaro che s’è rimesso in pista.
Lo ha fatto perché uno che sente di dovere sempre, probabilmente, non poteva pensare di aver chiuso la sua carriera così, con una porta mezza sbattuta in faccia prima che gliela sbattesse Ducati e una uscita di scena in sordina. Con pochi spunti e tante cose non dette. E’ tornato, s’è messo giù a lavorare, ma ha capito subito che sarebbe andata come è andata. Non lo ha detto, ma l’ha mostrato con ogni singola inflessione del suo viso in ogni occasione pubblica, in ogni intervista. Però di parole fuori posto non ne ha messe mai e, anzi, è arrivato a dire qualcosa che molti altri – anche quelli che una carriera come quella del Dovi possono solo sognarla – non avrebbero mai detto: “Se Fabio Quartararo riesce a fare quelle cose con questa Yamaha M1, evidentemente questa Yamaha M1 è una moto con cui si può fare molto bene. Io non ci sono riuscito, non mi sta riuscendo, e quindi il problema non è la moto, ma chi la guida”. Tanto che il dovere, alla fine, ha rivoltato le cose, diventando “dovere di dire basta”. Anche prima del tempo. Senza allungare una agonia che non ha più senso per nessuno. Lo farà a Misano, davanti alla gente che prima l’ha schernito (per non essere abbastanza amico di Vale o di Marco Simoncelli), poi ha imparato a amarlo fino a spingerlo in ogni modo quando Andrea Dovizioso (e questo non dobbiamo dimenticarcelo) è stato l’unico che potesse sembrare minimamente in grado di battere Marc Marquez. Il tutto mentre faceva crescere tra le sue mani una Ducati che, proprio grazie a lui, è diventata nel tempo la moto più ambita e non più quella che nessun capiva come far girare, nonostante andasse fortissimo.
L’ultima del Dovi è arrivata davvero e all’ultima è giusto tirare le somme. Al netto del tifo, al netto delle simpatie, al netto di quel modo che hanno (che abbiamo) i tifosi Ducati di sputare un po’ troppo spesso sui piloti che non riescono a far vincere la Rossa. Senza rendersi conto che a riuscirci è stato uno solo – tra l’altro in una stagione particolare – e che Andrea Dovizioso, conti alla mano, è quello che, almeno fino ad ora, ci è andato più vicino in assoluto. E per più volte consecutive. Dirà basta a Misano, su un circuito che porta il nome del più grande rivale del suo dovere. No, non del suo più grande rivale come pilota, ma come missione: Marco Simoncelli. Perché quando Andrea Dovizioso, piccolissimo e pieno di guai insieme a suo babbo Antonio (a proposito, la sua biografia “Asfalto” è roba da leggere assolutamente), faceva già i conti con il dovere di vincere, Marco Simoncelli era quello che provava a mettersi in mezzo. E qualche volta ci riusciva pure. Sembravano due che si odiavano il Dovi e il Sic, poi quando il destino c’ha messo le mani è venuta fuori la verità: ai nemici vogliamo spesso più bene che agli amici. Tanto che la foto dell’abbraccio con Paolo Simoncelli in quel maledetto funerale di ottobre starebbe benissimo in mezzo ai trofei che il Dovi ha conquistato in pista. Perché rappresenta una vittoria di umanità. Quell’umanità che trasuda pure dalle dichiarazioni che precedono l’addio: “Non ho paura e non sono triste. Sono felice di chiudere a Misano. Volevo che fosse così. Non vedo l'ora di finire la mia gara a Misano con amici e famiglia”. E’ umanità. Quell’umanità che adesso, da lunedì in poi, mancherà un po’ di più, con un altro dei grandi vecchi che dice basta. Con il vizio del dovere che non sarà più così ben rappresentato sugli asfalti della Classe Regina, con un ragazzo che esce di scena meritando il tributo che meritano i campioni veri. Il vizio del dovere, questa volta, dovremmo sentirlo noi. Domenica, a Misano, subito dopo la bandiera a scacchi.