“Come sociologo so che lo sport è la sublimazione di un conflitto. So che una partita di calcio è la sublimazione di una battaglia”. Sono queste le parole scelte da Francesco Alberoni per l’“attacco” di un articolo scritto per Repubblica, il 4 giugno 1985, a commento della strage dell’Heysel. Lo sport come sublimazione di un conflitto, come gesto rappresentativo e sostitutivo di una guerra. Lo sport, in definitiva, come allegoria della violenza.
Un concetto molto interessante che è, oggi, di estrema attualità, a seguito delle sfiorata rissa tra Lukaku e Zlatan Ibrahimovic, e che rende evidente come molte delle persone che, questa mattina, hanno gridato allo scandalo non abbiano, in realtà, compreso di cosa stiano parlando.
Per i pochi che non lo sapessero, nella serata di ieri, i due centravanti di Milan e Inter (già ex compagni al Manchester United), si sono presi a male parole, prima di sfiorare un vero e proprio contatto fisico. Ibrahimovic, in particolare, avrebbe pronunciato la frase: “you little donkey”, secondo qualcuno una sorta di auto-censura, volta a camuffare la precedente “you little monkey”, rivolta a Lukaku con accezione razzista.
Bullismo, machismo, espressione di una mascolinità tossica e di una mentalità da branco di primati, e, naturalmente, razzismo, sono solo alcune delle accuse mosse ai due giocatori (Ibrahimovic in primis) e a chi ha provato a giustificare ciò che abbiamo visto ieri in campo.
Si tratta, nel complesso, di critiche astrattamente comprensibili e coerenti in un dato sistema di valori, ma che denotano l’incapacità di comprendere come l’idea di ripudiare la violenza in generale nella vita non possa essere semplicemente traslata e considerata applicabile anche nel mondo dello sport. L’idea che aggressività, prepotenza, irruenza, ostilità siano atteggiamenti sempre sbagliati è banalmente incompatibile con l’esistenza stessa dello sport, perché lo sport è anche violenza, come ci ha insegnato molte volte anche il mondo dei motori.
Che dire, a questo proposito, della quasi-rissa tra Max Biaggi e Valentino Rossi sulle scale del podio del GP di Catalunya, nel 2001? Soltanto due gare prima, in pieno rettilineo, Biaggi aveva spinto fuori Rossi, prima che questi lo superasse mostrandogli il dito medio. Roba che fece ribaltare la gente sui divani, ma che rischiò anche di far finire uno dei due per terra a 200 all’ora (altro che la moglie di Lukaku). Anche nel 2001, Biaggi ci andò pesante, facendo di proposito “il pelo”, allo stesso Rossi, mentre questi si trovava seduto sul serbatoio della propria moto a gas chiuso, durante i festeggiamenti dopo il traguardo. Pure questa volta la posta in gioco non erano di certo un paio di punti sul labbro, ma la possibilità di farsi male davvero. D’altra parte era stato lo stesso Biaggi a pronunciare l’ormai storica frase “motorbike race is not classical ballet”, a chi gli chiedeva conto delle sportellate rifilate a Romboni, durante le fasi finali della gara della 250 svoltasi a Hockenheim, nel 1994, e sempre lui a tirare due "schiaffetti" a Marco Melandri, al termine della superpole del GP di Donington (Superbike 2011). Ma non si tratta di Biaggi in particolare, sia chiaro. Rossi è stato più volte al centro di aspre polemiche per numerosi altri contatti, Marquez è stato spesso additato come “folle”, per non parlare di episodi clamorosi come la pinzata di Fenati a Manzi, solo per restare in epoca moderna.
E neppure le corse in auto sono estranee a scorrettezze e gesti aggressivi, di gran lunga oltre qualsiasi perimetro regolamentare. Senna che caccia fuori Prost, nel 1990, a Suzuka, è forse l’esempio più macroscopico, nella storia della Formula 1, ma anche la voglia di Schumacher di spaccare la faccia a Coulthard, a Spa, nel 1998, non è un cattivo esempio.
Attenzione, quando parliamo di incidenti o quasi tali, non ci riferiamo a manovre che possono essere paragonate a un fallo o a una semplice violazione del regolamento. Se tu mi butti fuori di proposito a 200 all’ora stai compiendo, né più, né meno, un gesto violento, un gesto che travalica i confini proprio di quella sublimazione di cui parlava Alberoni nel 1985. Il punto, però, è che quella stessa violenza rappresenta l’essenza dello sport agonistico in generale. È una forma di aggressività di cui non tutti sono in possesso. Non tutti sono in grado di arrivare al livello di agonismo che è necessario per primeggiare nello sport professionistico. È un’attitudine personale che può essere coltivata ma che in alcuni sportivi è ai massimi livelli. Per comprenderla, per capire di cosa si tratti, basta, però, l’empatia. Basta essere in grado di mettersi nei panni degli altri, di immedesimarsi nelle emozioni di un altro. Io non sono abbastanza aggressivo per competere a livello agonistico. Se fossi in campo non mi incazzerei mai come Ibra, già lo so. Ma ho gli strumenti per capire che questa sua aggressività è parte del ruolo che lui riveste nella società, è parte di ciò che gli chiediamo. Ibra è uno sportivo ai massimi livelli e, come tale, ha il dovere di esprimere il massimo della violenza, in froma sublimata, che gli è concessa o che non è espressamente punita dal regolamento. Se non vi piace la violenza, non c'è nessun problema. Ma, allora, evitate di parlare di sport.