Sono giorni che sentiamo nuovamente parlare di contagi, di colori delle regioni, di obbligo vaccinale, il tutto per questioni che non erano poi così imprevedibili: in Italia i vaccini procedono ma non abbastanza, i Green Pass stanno sul culo a parecchi, non necessariamente solo ai No Vax, fuori dai grandi centri accedere ai tamponi resta una impresa epica. Nel mentre la gente è stanca di stare chiusa dentro casa, dove del resto teme di doversi rintanare presto, e a tratti anche stanca di dover tener conto di quello che la pandemia ci ha un qualche modo imposto, quelle nuove consuetudini sociali che in effetti tanto sociali non appaiono, il distanziamento, le mascherine, la negazione di qualsiasi idea di assembramento, niente feste, niente concerti, niente discoteche. Potrei a questo punto arrivare, tardi, sulla vicenda Salmo a Olbia, e magari azzardare il più populista dei discorsi, tirando in ballo i festeggiamenti per la recente vittoria agli Europei di calcio, ma non sono populista, e trovo che quel che succede sui social, Salmo docet, sia sufficiente a tenersi alla larga da certi trend topic infuocati, e lascio a altri il compito di cavalcare l’incavalcabile. So solo che sembra che la fine che per qualche tempo baluginava all’orizzonte, come un timido sole che stenta a sorgere, in realtà non intenda salire troppo alta in cielo, appena per ora, e la cosa mi ha dato ovviamente da pensare, e neanche poco, tanto più che le giornate si accorciano e, per dirla con il professor Galli e il nano del Trono di Spade, l’inverno è alle porte.
Mi ha dato da pensare perché questo ultimo anno e mezzo ha in effetti imposto tanti cambiamenti alle nostre vite, per la prima volta non ho visto i miei genitori, anziani, a Natale, per dirne una, scontatissima, ma non tutte queste imposizioni, credo, sono poi così negative come una pandemia dovrebbe lasciar presupporre. Costretti giocoforza a fare i conti con il nostro tempo, i nostri affetti, il nostro lavoro, in molti ci siamo trovati a rivedere l’ordine delle priorità, molti, non tutti, magari confermandolo, ma spesso trovandoci a riorganizzare le nostre vite seguendo nuovi canoni, canoni che, entrati come momentanei, sono con le settimane e i mesi diventati permanenti, e a cui ora non è poi detto che intendiamo rinunciare. Pensiamo allo smart working, quella forma di lavoro in remoto impropriamente chiamato così, dovrei aggiungere, laddove è stato possibile, quindi direi escludendo parte della pubblica amministrazione, più pachidermica nel pensare i cambiamenti, e non sempre supportata da lavoratori intenzionati a lasciare il vecchio per un nuovo che potrebbe anche prevedere un supplemento momentaneo di fatica, lo smart working è diventato una costante nelle vite di molti di noi, e rimodulare la propria vita escludendo da essa una parte di ore dedicate agli spostamenti, a inutili momenti “sociali” non necessariamente piacevoli, anche a una serie di passaggi spesso considerati necessari, in realtà rinunciabilissimi, ha indotto molti a guardare a questa nuova vita come un passo in avanti, una sorta di emancipazione rispetto a una forma di sudditanza a un sistema che ci hanno in qualche modo inculcato a suon di “il lavoro nobilita l’uomo” e altre nefandezze del genere. Come dire, il poter passare più tempo in casa, seppur lavorando e per chi ha una casa che sia ospitale e un contesto familiare che non sia oggetto di disagio o malcontento, ha fatto guardare a una nuova formula lavorativa con un certo interesse, al punto che molte multinazionali hanno proposto ai loro dipendenti la possibilità di sposare lo smart working anche finita la pandemia, e molti lavoratori hanno accettato questo tipo di soluzione. Certo, le aziende lo avranno fatto per motivi che poco o nulla hanno a che fare con il bene dei propri dipendenti, per le aziende avere meno dipendenti in sede significa un grande risparmio dal punto di vista di investimenti (meno mensa, meno navette, sedi più piccole, quindi affitti minori, spese per riscaldamento e affini minori), lasciando che parte delle spese gravino direttamente sui dipendenti stessi, la rete, il riscaldamento, la luce, la postazione di lavoro, solo per dirne qualcuna, ma comunque è un cambio che porta a una differente visione del proprio tempo, direzione che altrove si manifesta con le quattro giornate lavorative introdotte in Islanda, a parità di stipendio, e che in effetti sembra essere uno dei punti fondamentali per le nuove leve che si affacciano al mondo del lavoro, che guardano allo smart working come a un must più che come a un plus.
In questo scenario, ovviamente, c’è chi guarda a tutto ciò con timore, se non addirittura con terrore da film horror. Lo smart working porta da una parte allo spopolamento dei centri cittadini, dove spesso si trovano le aziende, penso a Milano, con conseguente penalizzazione di chi in centro offre servizi come bar e ristoranti, con un minor utilizzo dei mezzi di trasporto, anche una minore vendita di capi di abbigliamento, lo smart working non prevede dress code eleganti, se poi si pensa che lo smart working si può praticare anche a distanza, anche un vero e proprio spopolamento delle città, vuoi mettere lavorare in mezzo al verde o in riva al mare, vedi alla voce south working, di cui tanto si è detto, e anche l’idea di non avere il controllo sui lavoratori deve aver avuto un certo peso, prova ne è, sempre rimanendo a Milano, che il sindaco uscente Sala, non proprio illuminatissimo in questa epoca Covid, ha richiamato i suoi dipendenti in ufficio, per paura di un certo lassismo di fondo, ovviamente giustificando il tutto con la faccenda dei bar e ristoranti.
Certo, si parla molto di perdita della socialità, di come sia diverso parlarsi in video e di persona, ma nei fatti sembra che a parte certi lavori che necessitano ovviamente la presenza fisica, per buona parte di chi lavora in ufficio sarebbe possibile un ritorno solo parziale in sede, un paio di giorni alla settimana e il resto a casa o dove si vuole.
Poi però sento parlare un uomo genericamente considerato un capitalista illuminato, o per dirla con le parole del sottotitolo del suo libro un capitalista umanista (o umanistico) Brunello Cucinelli, noto nel mondo come il re del cashmere, e di colpo ho capito come tutto è davvero relativo, sul pianeta Terra. Colui infatti che è diventato famoso per aver fatto negli anni grandi regali ai propri dipendenti a seconda dei guadagni portati a casa dall’azienda, che regala libri ai dipendenti per diffondere cultura, che chiude gli uffici alle 17 e 30, perché la vita è vita anche oltre il lavoro, che ha quindi umanizzato tanto quello che solitamente viene visto come un mondo decisamente disumano, noto anche per le sue trovate un filo a effetto, come il regalare alle figlie, per il matrimonio, una dote di oltre mille libri, del resto lui ha costruito nel suo paese d’origine un teatro, poco importa che in un impeto di egomania lo abbia intitolato a se stesso, e che ha dato spazio a una biblioteca in azienda, una azienda dove si produce cashmere, non direttamente cultura, se ne è uscito con dichiarazioni che guardano al mondo dello smart working neanche con ostilità, proprio con aria di sufficienza. Qualcosa che suona come “come si fa a lavorare senza guardarsi in faccia”, come se per guardarsi in faccia oggi fosse necessario stare nello stesso posto e se guardare in faccia qualcuno sia sempre qualcosa da annoverare tra i valori aggiunti, invece che tra le serafiche rotture di coglioni. Non contento è anche andato oltre, ha pure detto che le lauree non fanno le persone, frase in sé condivisibile, sottolineando però come lui non abbia studiato, e come lo studiare sia a volte un orpello inutile, forse ritenendo che la frequentatissima Università della Vita sia sufficiente a preparare i giovani al mondo del lavoro, e più in generale al mondo. Un modo neanche troppo blando per dire, lavorate fino alle 17 e 30, ma mentre lo fate fatelo in azienda, che vi si possa controllare, e non studiate troppo, che è noto che chi non studia tende a farsi meno domande (sto semplicisticamente proponendo il medesimo canone di rapporto con lo studio, sia chiaro, anche se resto convinto che analfabetizzare le persone sia la migliore formula per tenerle sotto il giogo). Toh, se proprio dovete evolvervi ci penso io poi a regalarvi dei libri, per Natale, Confucio, Epicuro, sia mai che vogliate davvero andare a fondo provando a formarvi.
Lo so, detto così sembro un filo prevenuto. E probabilmente lo sono. I nuovi mecenati che sponsorizzano le illuminazioni dei monumenti nei borghi antichi, quelli che vanno parlando di umanesimo mentre fanno cassa vendendo maglioni all’estero, quelli che non si fanno problemi a sciorinare filosofie da supermercato mentre osteggiano reali idee di progresso, per dirla proprio con Salmo, tendono a starmi un pochino sul cazzo.
A questo punto, immagino, ci starebbe che io allestissi un qualche paragone con un personaggio che operi nel mondo della musica, il mio campo di giochi. Un Cucinelli della discografia, quindi, o magari un qualche campione, un artista di quelli che fanno numeri pazzeschi. Cucinelli, non dimentichiamolo, è il re del cashmere, mica è un Conte o un Duca, tanto per non far passare l’idea che io abbia voluto dire la mia sull’imprenditore umbro senza una motivazione altra che non fosse la mia personale antipatia nei suoi confronti, o a volerla vedere con occhiali rosa, per una mia atavica ostilità nei confronti di chi punta al capitale spacciando il tutto per gesto filantropico, come di chi utilizza le favole per bambini per veicolare messaggi violenti, per attirarli nel Dark Web e farne carne da macello.
Sfiga vuole che non ci sia, al momento, un Cucinelli che operi nel mondo della musica, ambiente di merda come pochi altri dove, però, quantomeno, nessuno si finge altro da quel che è, o quantomeno, non c’è una narrazione che un personaggio del genere accompagna (la narrazione è parte integrante della favola capitalistico umanistica di Cucinelli, nella discografia a parte i leccaculo come i Pool Guys di pausiniana memoria non vedo all’orizzonte un altrettanto malfidato caso di pronismo). Sfiga che però regala, almeno per una volta, un lieto fine a queste mie parole. Accontentiamoci dei Gino con le Mutande, dei Salzano coi suoi giochini con biglietti regalati e venduti, di una pletora di artisti senza talento e senza arte né parte, senza covare illusioni destinate comunque a venire presto deluse.