Aumentano i contagi, cresce la paranoia (“zona gialla si o no?/terza dose tu quando?/“ma secondo te riesco ad andare a Parigi o mi fanno storie coi tamponi?”), gli USA ammoniscono i propri viaggiatori invitandoli a non andare in italia, Paese per il quale il livello di allerta è “molto alto”: insomma il terreno più fertile perché il team di YesMilano, con il consueto tempismo, sganci la sua nuova fatica promozionale a beneficio dei principali Paesi europei per magnificare le molte virtù della mia città, Milano. Mi ero già trovato a scrivere nel luglio del 2020 del precedente sforzo produttivo di Milano&Partners ed ero stato decisamente critico. Quel video, a pochissimo tempo da uno dei momenti più bui vissuti dal nostro paese dal dopoguerra ad oggi (i morti a migliaia, il lockdown totale, i supermercati svaligiati), con il suo ventaglio di luoghi comuni triti come un assolo del tardo Eric Clapton, con gli skaters che svolazzano griffati davanti a Piazza Affari facendo il gesto dei surfisti de La Jolla, con neologismi filonewyorkesi come “LAMBROOKLYN” in grado di trasformare la salma di Umberto Eco in uno zombie antropofago assetato di cervelli di copy meneghini, mi aveva fatto arrabbiare. Mi aveva fatto dire: ma allora questa pandemia a noi milanesi non ha insegnato niente. Avevo capito che non saremmo usciti migliori. Nel più roseo dei casi ne saremmo usciti uguali… sicuramente più poveri. Questa nuova fatica realizzata sempre da Wunderman Thompson (devo dire magistralmente da un punto di vista squisitamente tecnico) non ha suscitato reazioni così negative ma mi ha messo un pochino di tristezza.
L’ho inizialmente attribuita alla classica malinconia da “fine della fanciullezza” che mi pervade ogni volta che in tv sento i jingle di Natale sin da quando scoprii (a 8 o 9 anni) che Babbo Natale non esisteva, aprendo un armadio di casa e e trovando il mio regalo di Natale non ancora incartato. Era Novembre. Poi però, 10 minuti dopo, ho capito da dove veniva la tristezza, e cioè dal fatto che non ce la facciamo proprio. Nemmeno se Milano diventasse la nuova Hiroshima, neanche se bande di predoni con la cresta punk a bordo di apecar corazzate razziassero i sopravvissuti a un olocausto nucleare come in Ken il Guerriero riusciremmo a emancipare Milano da una narrazione che la vuole implacabilmente centro nevralgico della movida, capitale della moda, polo attrattivo d’eccellenza per creativi, artisti, imprenditori, gente che ha voglia di fare. Ma ancora? Possibile che una città ricca di storia (come quasi tutte quelle d’Italia in realtà) non riesca a farsi raccontare se non attraverso quelle tre/quattro cose? Ma basta cianciare e passiamo in rassegna il video.
Nella sua baita avvolta dalle nevi perenni di Rovaniemi, Babbo Natale sgranocchia una galletta sulla sua sedia a dondolo e si rompe i coglioni. Uno sguardo triste al suo guardaroba, desolatamente composto esclusivamente da uniformi da Santa Claus unito all’ascolto di uno spot che incoraggia i turisti desiderosi di rifarsi il guardaroba fregiandosi dell’abusato vessillo del made in Italy, lo spingono a dirigersi a Milano. Qui inizia il suo turbinante makeover degno di Enzo Miccio su RealTime: prima va nel flagship store di Monclair in Galleria per comprare un bel piumino rosso, poi è nella storica Barberia Colla (uno dei miei luoghi preferiti in assoluto) a farsi scolpire la barba come un assiro-babilonese tardo hipster. Qui incontra il suo comprimario dello spot: un avventore che sembra la controfigura per le scene recitate del rugbysta Castrogiovanni. Appare evidente come la barba abbia sostituito il Rolex come iconema di stile: se non ce l’hai sei un povero stronzo. Per Babbo e Castro è tempo di shopping in Rinascente e dopo aver scaldato le carte di credito è la volta di una visita alla Pinacoteca di Brera (perchè Milano non è solo un grande department store, è anche cultura) dove i nostri contemplano rapiti il capolavoro di Hayez, “Il Bacio”, dipinto che funge da tendina per mostrare il bacio saffico tra due giovani donne, una donna e una mulatta, in una discoteca (perchè Milano non è solo un grande department store e cultura, è anche inclusività e movida). Babbo e Castro con le due loro amiche si scatenano sul dancefloor ma dura un attimo perché nella sequenza successiva i quattro stanno brindando in una trattoria milanese con vino rosso e panettone (perchè Milano non è solo un grande department store, cultura, inclusività e movida, è anche tradizione enogastronomica). Una giornata così epica non può che finire nel tempio dell’operistica italiana, La Scala, col nostro quartetto impegnato a seguire il MacBeth in balconata. È a questo punto che Babbo Natale viene bruscamente riportato alla realtà con una serie di messaggi sul suo telefonino: è la vigilia, bisogna tornare alla base e distribuire regali in tutto il mondo. Non prima però che il nostro Babbo Hip si sia congedato dai suoi nuovi amici e abbia fregato un tram (simbolo pagano/industriale della città) per tornare al polo nord. Le finalità del messaggio sono chiarissime, la resa tecnica è ineccepibile… ma pur continuando a ripetere che Milano è una città capace di reinventarsi continuamente a me sembra sempre perniciosamente ancorata al consunto binomio figa & fatturato. E sarò un vecchio boomer ma come spot della mia città continuo a preferire i titoli di testa de “I Fichissimi” dei Vanzina. Che è del 1981.