Scrivo queste seimila battute dalla provincia italiana. Non sono tanto cool da vivere in Molise - “the place to be” nell'estate 2020 secondo il NY Times - ma sono abbastanza in da muovermi nel circondario dei borghi illuminati del centro Italia, quelli dove i VIP comprano per due lire la quarta casa vacanze.
La mattina mi sveglio con il cinguettio degli uccellini e il profumo dell’erba bagnata, prendo il caffè con il frinire delle cicale, dalla finestra del mio “ufficio” vedo chilometri di verde, il negozio più vicino è a 1 km ma chissenefrega: l'insalata è nell’orto, pomodori e uova vengono dalla casa del vicino e le fragole, anche oggi, mi regalano frutti per la macedonia.
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La mia vita non è stata sempre così. Come tanti giovani italiani ho fatto di tutto per scapparmene il prima possibile da questo buco di culo, dove mi sono sempre sentita quella strana e fuori luogo solo perché dove il sole della cultura è basso i nani sembrano giganti. Io, che campavo di Baudelaire e disagio adolescenziale, sono fuggita dalla provincia per perdermi come il flaneur nella metropoli. Ed ora come il tempo nicciano che insegue e divora sé stesso, eccomi di nuovo qui. In smartworking in un posto dove quando piove duro internet va giù, dove resistere all’alcolismo (o all’eroina se fossimo negli anni 80) è impresa d’afflato Gandhiano, dove è meglio non aprire Tinder se non vuoi farti almeno 40 km per non rischiare di incappare in quello che al liceo pensavi: ma manco morta.
Dal mio piccolo cantuccio rassicurante, fatto di gente che dorme con la chiave nella toppa, di anziani troppo anziani e di giovani con troppi figli a riempire i propri vuoti esistenziali, leggo status di gente che: “Finalmente sono tornato al sud! Qui la spesa costa poco, la vita è eco sostenibile, la mattina posso fare yoga senza dovermi uccidere per arrivare in orario a lavoro, e nel tempo libero faccio la pasta con nonna!”.
Leggo l’osanna del piccolo mondo antico con un cinema ogni 50 km e tre sale perennemente occupate dalla peggiore offerta cinematografica mainstream, dove non ci sono luoghi di cultura, dove niente è valorizzato, neppure la natura che sarebbe l’unica risorsa reale a disposizione, e penso: ma siete seri quando dite di voler restare al borgo natio?!
In questi giorni fortissima è la polemica contro Beppe Sala che sta cercando in tutti i modi di rovinare a molti milanesi acquisiti, quel simulacro di estate che si stanno godendo dopo mesi di lockdown urbano nell’alienante paesaggio della città che wannabe New York ma cade in disgrazia come le altre. Non conosco le statistiche ufficiali ma credo che circa la metà della forza lavoro milanese sia immigrata. Molti vengono dal sud, da paesi di cui apprendiamo l’esistenza solo grazie a qualche collega di lavoro. Puglia, Calabria, Basilicata, Molise, Campania: luoghi dove il tempo si è fermato in un imprecisato quadrante dell’orologio, in cui si vive un eterno presente fatto di riflessi ed echi di un mondo lontano. Un mondo dove se sei un mezzo artista e hai il giro giusto, magari sfondi. Un mondo dove puoi chiamare il tuo lavoro con neologismi anglofoni che rientrano in un linguaggio condiviso. Un mondo dove si campa di moda e cliché, dove l’aperitivo è un must, la notte è giovane e il giorno è di chi è preso da qualcosa.
Beppe Sala richiama all’ordine i suoi fatturandi come figliol prodighi scappati dalla casa del padre: pago e pretendo, qui si guadagna qui si pagano bollette e ristoranti. Di contro, offro chimere di lifestyle e icone a buon mercato, come quelle della video marchetta YesMilano nata per rilanciare il turismo e l’immagine di una Milano sempre a cazzo duro, dove le torri competono per lo skyline come gli umani per un posto al sole, dove si va veloce dal lunedì al venerdì e il sabato si va lenti tra le vie dello shopping, a spendere quel poco che resta al netto dell’affitto e delle pause pranzo salate e senza sale. Dove social washing e gentrification non sono parole dense di criticismo, bensì note di merito se la periferia sforna talenti come Detroit negli anni 90. Dove sono tutti fluidi, gender free e attenti alle cause civili ma pochi si battono perché certi modi e certi spazi restino in voga per il loro valore culturale prima che simbolico.
Dove ieri c’era la Milano da bere oggi c’è uno star system paragonabile a una riunione di condominio. Sempre le stesse facce da cazzo. O almeno questo ci fanno vedere i media. Quando invece sarebbe più onesto dire che sí, in un mondo di ciechi l’orbo è il re e in questa povera Italietta dove poco si guarda e si osa oltre la siepe del proprio giardino, Milano è una delle poche città a darti un sentore di contemporaneo e a illuderti che ci sia un futuro di luminose possibilità di successo personale e professionale.
Se tutto questo significa principalmente cedere ai dogmi del mondialismo (come pure può essere) sono d’accordo con voi, rimpatriati del sudworking: fanculo Milano, resto dove si respira l’aria buona e posso fare il bagno a mare da maggio a ottobre, dove i boschi sono orizzontali e veri, e non esistono “cene dopo cena” perché a cena si mangia sul serio, non come quando spendi tutto da Cracco e torni a casa con la fame (e la miseria) nera.
Ma, al netto delle dichiarazioni di archistar, radical chic e protofrikkettoni col patrimonio di famiglia, sarebbe ipocrita non riconoscere che la vita di provincia è dura. Fossimo solo dei tubi digerenti sarebbe più facile, ma oltre a sopravvivere dobbiamo vivere e questo implica l’avere relazioni e opportunità che la provincia italiana non è in grado di offrire. Non adesso, non ancora.
Odio la retorica della vita bucolica. Fermatevi accanto al primo uomo su un trattore che incontrate e chiedetegli come si sta nella terra: lui vi risponderà che la terra è bassa, come a dire che immaginario e empirica sono sfere piuttosto distanti. È pur vero però che se tutti restassimo al sud da mamma’ magari nel tempo, unendo le forze e le coscienze, riusciremmo a costruire una provincia a misura di tutte le nostre esigenze, quelle reali che ci garantiscono la qualità della sussistenza elementare, e quelle sovrastrutturali, che ci hanno mezzo fottuto il cervello ma ehi, siamo figli del nuovo millennio.
Per adesso credo che a parlare per molti sia solo la voglia di starsene per un po’ nella semplicità dello stile senza pretese della provincia italiana. La voglia di coccole e calore che la Milano in latex sodomita non è avvezza ad elargire. Ne riparleremo con le prime piogge e la FOMO (“Fear of missing out” letteralmente: "paura di essere tagliati fuori”) d’autunno, quando tanti realizzeranno di aver preso un abbaglio constatando che in provincia la vita è sì più facile ed economica, ma ti spacchi inevitabilmente le palle.
Non si cambia vita senza scelte radicali che possono comportare anche conseguenze poco gradite.
Come cantava Lucio Battisti - nato in un paesino del cento Italia ad oggi noto solo per l’ottima porchetta, umili origini che egli ha sempre preferito delegare all’omissis: “ti sei innamorato di chi, troppo docile non fa per te”.
La provincia è la classica cotta estiva. Yes Milano è fuffa? Ne riparliamo a settembre.