Obbedire. E’ un verbo che suona di vecchio e ribellione, perché esprime qualcosa che tocca a tutti da sempre e perché rappresenta un’accettazione che non può essere passiva, ma ha il dovere di essere attiva. Sull’obbedire c’hanno fondato religioni e stati, storie, avventure e persino stili di vita e trasgressioni, variando solo il peso sulla bilancia della storia e delle vicende personali. Non si vorrebbe mai obbedire, ma si finisce per farlo: a un Dio (che può essere tutto, ma prima di tutto è Verità), a un governo, a un genitore o a un impulso dell’anima e alla fine quell’obbedire lo si ama pure, come qualcosa a cui, tanto, non ci si può sottrarre. Il suo contrario è “disobbedire”, la sua evoluzione naturale è “accettare”. E la sua spina è “personalizzare”: obbedisco, ma a modo mio. Il minimo (e chiamalo minimo!!) comune denominatore (dominatore, sarebbe meglio!) di obbedire, invece, è “destino”. A lui si obbedisce e basta. Non vale solo per le persone, vale anche per i circuiti. Quello della Malesia, Sepang, ad esempio, ha destino di teatro e a quello deve stare. Anche quando non vuole.
Non avrebbe voluto nell’ottobre del 2011, quando Marco Simoncelli è morto, in un incidente assurdo che abbiamo visto e rivisto tutti milioni di volte. Per cercare di capire, per provare a spiegare o, più semplicemente, per ricordarci quanto bastardo sappia essere il destino, capace pure di mettere in mezzo a quell’incidente Valentino Rossi e la sua Ducati. Erano amici il Sic e Valentino. Dicono che Vale sia uno piuttosto freddo, uno consapevole che ogni giovane pilota è destinato a diventare avversario, uno che è talmente avvicinato da chiunque da dover necessariamente essere un po’ distaccato con tutti. Non ce l’aveva fatta con il Sic: quel ragazzo faceva troppo ridere e aveva troppo la sua stessa passione. “Era veloce e sgraziato” – aveva detto il Dottore nel ricordare il Sic. Come se “veloce” fosse la condizione e “sgraziato” fosse qualcosa che vale più di simpatico. Insomma, quel ragazzino aveva sfondato persino il muro del doveroso distacco. Si volevano bene e sapevano che sarebbero finiti per fare a sportellate, ma non importava. Non sapevano, invece, che non avrebbero fatto in tempo. Perché il 23 ottobre del 2011, nel teatro di Sepang, era il giorno in cui sarebbe dovuto andare in scena il pianto: il destino aveva tracciato un altro disegno. Sepang ha obbedito e ha pianto. Noi abbiamo obbedito e abbiamo pianto. Perché il destino disegna solo fatti. E i fatti sono più della verità, visto che ognuno può avere la sua. I fatti, invece, sono quelli e da lì non si scappa. Al limite li si può trasformare in radice, come ha fatto Valentino Rossi, dando vita all’Academy proprio come evoluzione di quell’amicizia spezzata.
Non è stato possibile scappare dai fatti neanche 4 anni dopo, quando nel teatro di Sepang è stato il giorno della rabbia. Marc Marquez e Valentino Rossi che si portano in pista qualche vecchia ruggine. Il giovane, ferito ma non arreso alla fine di una stagione per lui difficile, e il grande vecchio, stanco ma ancora lì a due passi dal sogno di conquistare il decimo titolo mondiale, magari proprio sulla pista in cui pochi anni prima aveva dovuto piangere le lacrime più amare. Sorpasso, controsorpasso, una bagarre che diventa battaglia personale e, alla fine, Marc Marquez che finisce a terra. Sepang ha obbedito e s'è arrabbiata, noi abbiamo obbedito e ci siamo arrabbiati. Un calcio presunto, poi le accuse e un chiacchiericcio che ancora oggi non si è arrestato. Come non s’è arrestata la rabbia, per quello che è successo, per come è successo e perché, al di là di torti o ragioni di cui non ci frega assolutamente nulla, quella pagina di motorsport è stata brutta davvero. Brutta e diversa da come ce la saremmo aspettata, brutta e diversa da come sembrava che il destino l’avesse voluta disegnare. La verità di Valentino è che Marc Marquez gli ha fatto perdere il mondiale, la verità di chi valentiniano non è che Vale quel mondiale l’ha perso. Ma la verità è personalizzabile e i fatti no: quel mondiale ce l’ha in bella mostra Jorge Lorenzo, insieme a altri quattro. Il fatto è questo e da qui non si scappa. Al limite lo si è potuto trasformare in radice, come abbiamo fatto tutti, maturando la consapevolezza che prima o poi Sepang sarebbe stata teatro anche di qualcosa di migliore.
Quel giorno, probabilmente, è arrivato. Ok, si facciano tutti gli scongiuri necessari, ma non è quello che si vuole dire. Perché qualcosa di migliore non è ciò che non possiamo prevedere: vincerà Pecco o no? Qualcosa di migliore è semplicemente la speranza. La speranza che quella storia che è stata di pianto e di rabbia nel teatro di Sepang possa riservare un terzo atto pazzesco. Pecco Bagnaia - un figlio di quell’Academy nata proprio sulle lacrime per Marco Simoncelli – e la sua Desmosedici – la figlia di quella Desmosedici che in quel maledetto giorno di ottobre era guidata da Valentino Rossi – possono vincere il mondiale. Ci sono un po’ di combinazioni possibili, ma non staremo qui a elencarle perché c’è chi lo ha fatto prima di noi. A noi basta sottolineare che c’è quella possibilità lì. Che poi è il fatto che ha disegnato il destino. Fotocopiando, questa volta, anche una data: 23 ottobre. Quel giorno, ma undici anni dopo. A Tavullia dicono che Valentino Rossi è già in volo per la Malesia, ma c’è anche chi dice che è così scaramantico da non sognarselo neanche di mettersi in volo per una festa che potrebbe non consumarsi. Di sicuro, però, c’è che si respira quell’odore lì che annuncia i momenti forti. Quelli in cui ci si emoziona tanto. Come ci ha emozionato il pianto, come ci ha emozionato la rabbia e come vorrà farci emozionare, adesso, il destino! Ricordandoci, però, che la spina di obbedire è personalizzare, trasformare i fatti che disegna in radice di qualcosa, o, per usare le parole di Hesse, “il destino non viene da lontano, riesce dentro ciascuno di noi”.