I virologi sono i nuovi chef. Mestieri un tempo relegati alla penombra dei laboratori, poi illuminati dall’aura televisiva. Gli spettatori hanno imparato a chiamare i cuochi chef (alla lettera, capo): manca un’equivalente nobilitazione francofona per i virologi – suggerimento: prophète.
I programmi di cucina ci avevano già abituato all’atto di fede. I programmi di cucina sono un paradosso sensoriale. Nei talent musicali ascolti la canzone, l’intonazione, vedi la performance. Nei programmi di cucina il piatto non lo assaggi. Lo guardi, d’accordo, ma è un po’ pochino per valutare quella che dovrebbe essere la qualità essenziale: il sapore. Magari un bel piatto fa schifo, magari un brutto piatto è buonissimo. Per deciderlo, devi rimetterti all’Autorità Gastronomica Universale (AGU), non hai scelta. È un atto di fede nell’AGU.
E così, quando le circostanze lo hanno permesso, ecco comparire sulla scena un altro mestiere il cui suono, fino a nove mesi fa, per lo più lo avevamo ascoltato con la distratta noia riservata a “carpentiere” o “archivista”. Di colpo, ciò che abbiamo di più importante – la vita – dipende da questo nome composto di greco e latino, artificiale, in pratica “colui che parla di veleno”. Ognuno ha le proprie fissazioni, per carità, ma c’è chi potrebbe pensare: speriamo di non ritrovarmelo di fianco al ristorante.
L’ultima volta che abbiamo maneggiato un vetrino è stato ai tempi del Piccolo Chimico, uno di quei giochi che sembravano una figata e dopo poche ore erano già là a prender polvere in soffitta. Un virus misura un centinaio di nanometri: qui il piatto non solo non lo puoi assaggiare, non lo puoi nemmeno vedere. Non puoi valutarne l’espressione, capire quanto è incazzato, né analizzare lunghezza e rapacità dei suoi tentacoli. I virologi te lo spiegano nell’unica maniera possibile: con una sequela di formulette alfanumeriche e supercazzole anglolatinesche. Quindi tu annuisci o inveisci sulla fiducia. Alla fine stai dalla parte di chi ti è simpatico. La questione è tutta lì. Così come la fama di Cracco è dovuta alla faccia – l’autoritarismo sexy dei primi piani che anticipano la valutazione di un budino – più che alla sua cucina (non è un giudizio sul suo lavoro, ma un dato di fatto: negli anni ha sedotto più telespettatori che gustatori: milioni di salotti italiani contengono più persone dei suoi ristoranti). Votiamo pure, per simpatia – Berlusconi – e votiamo contro per antipatia – Renzi. Ci curiamo o ammaliamo per simpatia. Siamo gente sanguigna.
A ben guardare quello del virologo non è nemmeno un mestiere. È una funzione. Possono essere virologi epidemiologi, parassitologi, igienisti, geriatri, veterinari. L’importante è che parlino di virus. Come ripeteva l’immenso Davide Mengacci nei suoi programmi culinari: “Non sono un cuoco ma un uomo che cucina”. Allo stesso modo, il non detto di molti monologhi virologici è: “Non sono un virologo ma un medico che parla di virus”. Ma non tutti possono avere l’onestà intellettuale di Davide Mengacci.
Niente di scandaloso. I virologi sono esseri umani – Mengacci no. Tu da’ a un uomo uno specchio e ci si rifletterà fino a frantumarlo. Chi non vorrebbe che le proprie umbratili fatiche fossero finalmente ritenute indispensabili? Immaginatevi se un’epidemia di panne bloccasse tutte le automobili occidentali. Ecco le prime pagine dei quotidiani aprirsi ogni giorno con l’intervista al Meccanico. Quelli si sciacquerebbero l’unto dalle mani, si scrocchierebbero le ernie, si comprerebbero un bel completo blu e attaccherebbero a sproloquiare per ore e giorni di bobine d’accensione e spinterogeni e collettori rotanti. E quando più gli ricapita? Non è difficile immaginare che si butterebbero in mezzo all’inaspettata gloria pure gommisti, carrozzieri, elettrauti. Se poi, terribili e imprevedibili circostanze rendessero necessari e salvifici agli occhi del grande pubblico gli scrittori, be’, allora addio. Quelli si incatenerebbero agli studi televisivi e il discorso pubblico si ridurrebbe a una sola parola ripetuta all’infinito: “io”.
Restiamo ottimisti, limitiamoci alla pandemia. Noi, che apriamo la calcolatrice dell’iPhone per una divisione, non siamo capaci di valutare la veridicità scientifica delle sentenze del Virologo. In un’epoca in cui il futuro, non solo remoto ma anche prossimo, dipende dalla scienza medica, ciò significa che per sapere come vivremo domani dobbiamo rimetterci all’Ineffabile. Il Virologo è la figura che nel 2020 si avvicina di più a quella dell’aruspice. Ficca gli occhi nella sua provetta come in un intestino di capra, li rialza e ti dice se Roma verrà invasa dai cartaginesi. E tu: ok. Il virologo non parla di veleno, parla di futuro. I virologi sono l’anello di congiunzione tra il cuoco e il profeta.