I terroristi non spuntano fuori dal nulla, anche se spesso potrebbe sembrare il contrario. A dimostrarlo ora c’è un podcast in dieci puntate che ne ripercorre la genesi, grazie all’«archivio Olimpio», il catalogo privato raccolto nei decenni dal giornalista del Corriere della sera, Guido Olimpio. Grazie all’ascolto di testimoni, familiari, militari, storici, scrittori, così come delle intercettazioni della Digos di Milano e Torino precedenti all’11 settembre 2001, è stato possibile ricostruire - con il supporto della collega Alessandra Coppola - il percorso al radicalismo di persone apparentemente “normali” che hanno compiuto una svolta radicale. In questo modo, vengono presi in esame 100 anni di azioni terroristiche: dagli anarchici contro Wall Street, ai mercenari giapponesi al servizio di Gheddafi, dall’attacco frontale agli Stati Uniti di Osama bin Laden alla tragedia del Bataclan a Parigi, fino agli stragisti che odiano le donne. Una lunga scia di terrore che ha lasciato “Tracce” ben visibili, dal titolo del progetto in collaborazione con Audible. Un lungo lavoro “fra passato e presente” che ci ha presentato lo stesso giornalista Guido Olimpio in questa intervista.
Com’è nata l’idea di cercare le “tracce” che avevano lasciato i terroristi prima di compiere le loro azioni criminali?
Stavamo pensando a un progetto per l’anniversario dell’11 settembre e, siccome seguo da decenni il fenomeno dei terrorismi, uso il plurale perché considero ne esistano varie forme come racconto nel podcast, abbiamo deciso di raccontare quello che è avvenuto con un taglio diverso. È un modo per offrire spunti che non siano noti o che siano stati dimenticati. Abbiamo cercato di legare passato e presente e in tutte le puntate ci sarà questo rapporto. È uno sforzo tenere insieme questi due momenti, visto che l’evoluzione del fenomeno è legata alle tattiche ma anche all’ideologia.
Ascoltandolo, ci si accorge che i terroristi non saltano fuori per caso, come spesso la maggior parte delle persone sono abituate a pensare.
Certi fatti precedenti alle azioni terroristiche vengono dimenticati per una serie di ragioni. Non ci vedo sempre malanimo, anche se a volte c’è. Ma non tutti sono tenuti a seguire quello che avviene nella realtà. Mi riferisco a piccoli episodi ai quali spesso non si presta la giusta attenzione. Come avvenuto per l’11 settembre, ma non solo. Quindi si “scopre” che c’è questa realtà precedente e chi vuole capire si mette a studiare, altri invece prendono la storia e dicono “ecco, sono stati creati a tavolino”. Per me non è accettabile. Al Qaida, per esempio, è arrivata dopo una lunga serie di attacchi, c’era un percorso preciso prima delle Torri gemelle. Così come le Brigate Rosse, fino all’operazione massima che è stata il sequestro Moro.
Rispetto al passato, però, quelli che hanno agito in Occidente erano “lupi solitari”, non completamente all’interno dell’organizzazione di appartenenza.
È quello che si definisce anche “terrorismo personale”, che si sta diffondendo sempre di più. Persone, che si comportano da terroristi, senza avere una agenda ideologica. Tanto è vero che per gli accademici non sono classificabili come terroristi. Ma anche costoro hanno un processo di maturazione e di radicalizzazione, non mi riferisco solo agli islamici. Per questo quello che avviene prima va seguito con maggiore attenzione.
Nel podcast viene sottolineato il cambio di profilo tra i terroristi del passato e di nuova generazione, ancora più imprevedibili.
Quel passaggio è interessante perché mette in luce un cambiamento netto. Quelli di Al Qaida erano persone con una vita normale nei paesi occidentali, infatti non si facevano mai prendere con le armi. Oggi invece vediamo che chi fa attentati, come al Bataclan di Parigi, sono persone sempre al limite, ai margini, con difficoltà sul lavoro, a livello sociale, emotive, con problemi caratteriali. Io li definisco “instabili” e non “matti”, perché hanno un profilo che può cambiare rapidamente da uno stato all’altro. Però anche in questo caso viene dimostrata una maturazione precedente, perché anche loro appartenevano a un movimento che un giorno, forse, gli avrebbe chiesto di fare qualcosa. Una strada parallela che a un certo punto si è congiunta con quella del terrorismo.
Si apre proprio oggi a Parigi il maxi-processo per gli atti terroristici del 13 novembre 2015 che causarono 130 morti innocenti (più 7 attentatori) e 350 feriti. Venti gli imputati, tra i quali l’unico superstite dei commando di affiliati all'Isis, Salah Abdeslam. Da quando è in carcere si è chiuso nel silenzio e sembra che si sia ancor più radicalizzato. Cosa ci insegna la sua storia?
Il suo silenzio è fondamentale e spiega molto bene come il carcere possa essere un luogo di reclutamento e radicalizzazione. Ci sono grosse difficoltà a gestire i terroristi in prigione. Ricordiamo che gli attentatori di Parigi, con mitra e ordigni esplosivi, erano una cellula composta da elementi sul posto, spesso amici o parenti, con rapporti nati negli ambienti del piccolo crimine o conoscenti di quartiere. Aveva un aspetto quasi locale, ma che al momento di entrare in azione veniva integrata dagli specialisti e dai coordinatori. Quel tipo di schema sintetizza in maniera plastica la minaccia del Califfato. Ma non sempre è così, perché i terroristi sono degli opportunisti, quindi se hanno l’occasione di mettere insieme un gruppo lo fanno, sennò agiscono in maniera individuale con quello che hanno, da un coltello a una macchina.
Guardando le immagini che arrivano dall’Afghanistan, in molti si chiedono se quel paese tornerà una base stabile per i terroristi di matrice islamica, come avvenne per Al Qaida.
Onestamente non si può dire cosa avverrà in un paese particolarmente remoto, chiuso, difficile da comprendere, frazionato, influenzato da molte forze all’esterno che possono incidere. Io credo che i talebani siano sempre i talebani e non possano cambiare, ma adattarsi sì. Per cui, in una prima fase dimostrano di non avere interesse ad appoggiare il terrorismo, non perché siano diventati buoni, ma perché hanno necessità di un minimo di stabilità. Infatti, sono esposti agli attacchi di chi è più radicale di loro, come l’Isis. Bisognerà vedere se il governo reggerà nella coesione tra i mullah. Quel che temo di più è chi tra loro potrebbe indossare “un doppio turbante”, quello dei mullah di stabilizzazione da una parte e quello in appoggio a qualche gruppo terroristico dall’altra, per fomentare e colpire di volta in volta in base ai vari interessi.
Parlando di terrorismo non si può dimenticare Osama bin Laden, colui che inaugurò questa nuova stagione di terrore che ha scosso il mondo. È ancora un simbolo tra i terroristi?
Possiamo dire che è riuscito nel suo intento, cioè diffondere un messaggio che è durato più della sua stessa esistenza. Io penso che la sua idea sia superiore al personaggio stesso. Questa idea è stata modificata dal Califfato e da altri gruppi, ma se vogliamo semplificare, visto che a volte si esagera con le definizioni e io credo più al fattore umano che a quello ideologico, lui ha aperto un fronte che, nonostante sia morto e i colpi durissimi inferti alla sua organizzazione, va avanti perché legato ai problemi di un’area molto vasta. Non c’è dubbio che sia riuscito, prima a compiere il primo passo con l’attacco alle Torri Gemelle, e poi il secondo di averci trascinato in una guerra senza fine. Ha sempre detto che voleva "dissanguare le economie occidentali". Non è completamente avvenuto, ma di certo abbiamo pagato un prezzo molto alto, per cui anche in questo ha ottenuto ciò che voleva.