«Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza». Così scriveva Tiziano Terzani in Lettere contro la guerra nel 2002, dopo l’intervento di Stati Uniti e Nato in supporto ai gruppi afghani dell'Alleanza del Nord per rovesciarne il regime talebano. A vent’anni di distanza, con la ritirata degli occidentali (compreso il contingente italiano), assistiamo ancora alle scene drammatiche che arrivano da quel paese, con il ritorno degli “studenti coranici” al potere, l’oscurantismo che dilaga, la perdita progressiva dei diritti civili e le immagini che fanno rabbrividire dall’aeroporto di Kabul, dove la gente cerca una disperata via di fuga fra gli attentati del gruppo dell’Isis K. «Purtroppo, non abbiamo capito nulla dall’esperienza del passato e da quello che scrisse Tiziano» premette sconsolata Angela Staude, la moglie del giornalista scomparso nel 2004, ma i cui articoli e libri sembrano oggi più attuali che mai.
L’abbiamo contattata, proprio per ricordare quanto il marito avesse previsto ciò che sta avvenendo in questi giorni. Come nella corrispondenza pubblicata dal Corriere il 31 ottobre 2001: “Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei commandos, mostrateci in piccoli spezzoni del Pentagono, come per farci credere che la guerra è solo un videogame, i talebani sono ancora saldamente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all'interno dell'Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del mondo il senso della nostra sicurezza”.
Angela Terzani Staude, cosa le diceva Tiziano al ritorno dai suoi viaggi in Afghanistan?
Tiziano non aveva una particolare simpatia per i talebani già allora. Verso la fine degli anni ’90 era stato in una delle loro madrasse (le scuole coraniche, ndr) e il loro fanatismo non prometteva niente di buono. Alla luce delle sue corrispondenze abbiamo capito poco di quel che stava montando. Tiziano ebbe le prime avvisaglie quando scrisse Buonanotte signor Lenin del 1992, che raccoglie la sua esperienza dopo la caduta dell’ex Urss nei paesi dell’Asia centrale, dove già si intuiva che la dissoluzione del comunismo avrebbe lasciato lo spazio all’Islam radicale, che sarebbe diventato la nuova bandiera dei diseredati. In quel libro lo ha scritto, che la caduta delle statue di Lenin avveniva all’urlo adi "Allah akbar". E anche a me ripeteva sempre di aver capito che quello sarebbe diventato il nuovo rifugio di coloro che si sentono dalla parte giusta della storia.
A vent’anni di distanza siamo ancora nella stessa situazione, forse peggiorata.
Quando allora il presidente americano Bush, con i suoi terribili consiglieri, decise quella guerra, Tiziano mi disse: “Non ne sorgerà che un’altra guerra”. Lo vedeva come un segno pericoloso per il futuro. Ho vissuto queste sue riflessioni sull’occasione mancata di cercare di rompere con le vecchie logiche del passato e di ristabilire un rapporto con questi disperati, che si sentivano già allora disprezzati. Ricordo bene come parlava dell’Afghanistan, un bel paese ma che ha sempre fatto la guerra: prima con gli inglesi, poi con i russi, alla fine con gli americani. E vale ancora il detto inglese, che definiva l’Afghanistan “il cimitero delle nazioni”, cioè degli aggressori. È un popolo che proprio non accetta di farsi togliere da altri il loro territorio.
E oggi lei come vive il ritorno dei talebani, con le immagini drammatiche che arrivano dall’aeroporto di Kabul?
Dico la verità, mi sembra terrificante per il popolo tutto quello che sta succedendo. Gli stessi talebani non sono un blocco unito, sono fra loro in lotta per il potere, sono contri gli uni agli altri in una guerra civile che rischia di non finire mai.
Su come reagire di fronte al fondamentalismo Tiziano Terzani arrivò anche a scontrarsi con la Fallaci, alla quale rispose: “Oriana, da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre…”.
È questo il punto. Ed è ancora più vero in questa situazione. Alcune sono state risolutive, come la Prima guerra mondiale. Ma tutte le altre, dal Vietnam in poi, sono finite male. E anche in Vietnam la guerra non è finita se non quando i vietnamiti sono riusciti a mandare via gli americani.
C’è chi ha paragonato la ritirata americana di Kabul a quella di Saigon del 1975. Lei vede delle analogie?
In quel caso gli americani furono sconfitti, in questo invece hanno abbandonato una guerra che non riuscivano a mantenere. Ma a parte le immagini delle fughe in elicottero con la gente che aspetta di andarsene, non mi sembra che i due momenti si somiglino. Quelli che erano rimasti in Vietnam sono stati mandati alla rieducazione, non hanno più vissuto la vita di prima, però era tutta un’altra situazione. I nord vietnamiti non li hanno ammazzati, anzi, parlavano di fratellanza. In Afghanistan invece stanno già punendo chi ha collaborato con gli occidentali. Per questo i vietnamiti non mi facevano paura, i talebani sì. I vietnamiti proponevano un sistema comunista, che tanti di noi condividevamo. Pensiamo a quanti hanno marciato per quelle istanze. Si credeva che avessero ragione a buttare fuori gli americani dal loro paese. Quel sistema è poi finito perché, come al solito, nessun ideale regge al potere. Si vuole raggiungere a tutti i costi per poi fare quel che ci pare. E questo atteggiamento ha rappresentato la pietra tombale di quegli ideali. Ma stavolta ho paura e non poca dei talebani, disuniti e in cui si infiltrano anche i terroristi dell’Isis.
Scherzo del destino, siamo anche a pochi gironi dall’11 settembre…
E si può dire che non abbiamo imparato niente di niente. Il povero Biden, dico povero perché dopo Trump siamo comunque fortunati ad avere lui come presidente degli Stati Uniti, si è trovato in una situazione non iniziata da lui e non peggiorata da lui, ma questa fuga è inspiegabile. Mi domando come l’intelligence non potesse sapere in che modo il popolo avrebbe reagito. I talebani hanno preso il paese in mano in meno di una settimana. In Vietnam ci sono voluti anni. Comunque, sarebbe stato meglio aver capito quali sono le conseguenze di certe azioni.
C’è uno scritto di Tiziano Terzani che le sembra particolarmente attuale oggi?
Qualche giorno fa sono tornata a leggere Lettere contro la guerra e già come comincia è impressionante. La prima recita: “Non c’è niente di più pericoloso in una guerra – e noi ci stiamo entrando – che sottovalutare il proprio avversario, ignorare la sua logica e, tanto per negargli ogni possibile ragione, definirlo «pazzo»”. E poi spiega perché quella era una buona occasione per cambiare approccio. Così fermo, così chiaro nel dire che non c’è verso, non c’è alternativa. Quei pensieri valgono pari pari oggi come allora. Mi ha impressionata questa sicurezza e mi ha ricordato quella che Tiziano chiamava “la mia maledizione”, cioè di essere considerato una Cassandra, che vede cosa succede ma nessuno gli crede.
Lei lo ha seguito nei suoi spostamenti da un paese all’altro, dove andava per raccontare di persona quel che accadeva. Oggi è un giornalismo sempre più raro. Secondo lei è una perdita?
Certo, perché sarebbe fondamentale, oggi più che mai. I giornali, che si lamentano di perdere lettori di settimana in settimana, non si accorgono che ormai non dicono più niente di nuovo, non pensano con la loro testa, si fanno dire cosa devono scrivere. Ma le persone non si riescono a coinvolgere se nessuno va a vedere davvero cosa accade. Come Tiziano quando nel libro Pelle di leopardo scrive: “Il primo morto, quando l'ho visto stamani, rovesciato sull'argine di un campo a braccia aperte, mi ha paralizzato. Gli altri dopo li ho semplicemente contati”. Bisogna vedere per raccontare. E poi è necessario essere preparati. Lui aveva una profonda conoscenza dei paesi in cui andava per lavorare e continuava ad arricchire queste conoscenze. Abbiamo donato a una biblioteca 8mila volumi suoi soltanto sull’Asia. Il giornalismo buono è quello lì.
Vede oggi qualcuno che le ricorda Tiziano Terzani tra i giornalisti italiani?
In generale era un giornalismo che aveva potere in quegli anni. Quello che scriveva un giornalista veniva letto dai politici sul serio, i diplomatici ne tenevano conto, si aprivano dibattiti nella società. Oggi a nessuno importa più nulla. Tutto scorre e se uno non ci si mette personalmente, anche rischiando, non riesce a fare la differenza. Per questo tanti sono morti nello svolgere il proprio mestiere. Mi spiace tantissimo che sia finito tutto. Tiziano parlava della decivilizzazione del nostro modo di vivere e ci aveva preso un’altra volta. Purtroppo, non trovo nessuno che ha questo atteggiamento, perché i migliori non vanno più a lavorare per i grandi giornali, lo sa meglio di me come funziona… Non cercano i più bravi, assolutamente no.