Da bambino Julian Assange cambiò casa 37 volte, cercando di fuggire dalla setta australiana in cui la madre, poco più che adolescente, aveva costretto l’intera famiglia. E via allora, di corsa, a cambiare appartamenti, scuole, città. Con una paura che, si dice, a Julian fece diventare i capelli bianchi a soli 15 anni.
Altri sostengono che quei capelli, simbolo di un uomo che di simboli sembra aver sempre vissuto, furono il risultato fallimentare di un esperimento con un tubo catodico dell’Assange genio bambino. O forse, sostengono i detrattori, quei capelli sono solo, semplicemente, tinti. Da sempre, da che ce lo ricordiamo, dal caso WikiLeaks, dai processi, le accuse di stupro, l’asilo politico, l’arresto.
Finti, come finto per qualcuno è sempre stato lui. “Un santone con manie di protagonismo” capace di gettare benzina sui più importanti segreti mondiali e scegliere il palcoscenico di Internet per dire al mondo intero di guardare il risultato di quel rogo. Luci e ombre di un personaggio impossibile da imbrigliare, definire, capire.
E lì dove si ferma quello che non sappiamo di Assange, sembra fermarsi anche la nostra capacità di darci una risposta sul grande quesito della vita del fondatore di WikiLeaks: che cos’è la libertà di stampa?
11 anni dopo lo scandalo di Collateral Murder, seguito dalla pubblicazione di 251.000 documenti diplomatici statunitensi, ancora non sappiamo dare una risposta a questa domanda. Impegno giornalistico o terrorismo? Anarchia o democrazia?
Può un uomo decidere di dare in pasto alle persone la verità? Si sta sostuendo a Dio? Al potere? A chi decide per noi? E deve essere punito per averlo fatto? Se sì, come?
In questo insopportabile, vecchissimo, dilemma del nostro occidente, ancora vive Julian Assange. 50 anni oggi, festeggiati (si fa per dire) in un carcere di massima sicurezza alle porte di Londra, ancora rinchiuso dopo la decisione di non estradizione negli Stati Uniti, paese dove Julian - accusato di 18 capi di imputazione diversi - avrebbe rischiato fino a 175 anni di carcere.
Estradizione che l’Inghilterra ha negato, in quello che sembrava essere il primo passo di Assange verso la libertà, ma che dopo sei mesi da quella sentenza non ha potrato a nulla. Si dice che Assange sia depresso, malato, che il suicidio sia dietro l'angolo.
Compie 50 anni ma non c'è niente, davvero niente, da festeggiare. Perché che lo consideriate un torbido mitomane o un re della libertà di pensiero una cosa è certa: Julian Assange è un simbolo del nostro mondo, luci e ombre comprese. E il modo in cui è stato affrontato, e insabbiato, il caso WikiLeaks è una lente di ingrandimento sui problemi che ancora oggi accompagnano il mondo dell'informazione, la libertà di espressione e il rapporto con il potere.
Julian Assange non compie 50 anni, perché Julian Assange è morto. Dimenticato, nell'oblio di una storia che dovrebbe riguardare tutti. Di chi lo esalta, di chi lo condanna, di chi comunque la pensi comprende l'importanza di non lasciare che questo simbolo venga insabbiato. Che diventi normale questa caccia alle streghe, questo martirio lungo un decennio.
Perché chi viene dimenticato non esiste, forse neanche è mai esistito. Così come la sua lotta, i segreti rivelati, gli abusi di guerra resi pubblici, le corruzioni politiche portate a galla. Niente ha avuto senso, se viene dimenticato. Compresa la rinuncia alla vita personale.
"Non dovete amare Assange - ha detto il suo avvocato in un discorso pubblico fuori dal carcere lo scorso marzo - Ma parlate di lui. Ricordate la sua storia, spiegatela ai bambini, discutetene e indignatevi".
Perché non avere un'opinione, un pensiero critico, una personale idea di verità, questo sì che ucciderà davvero Julian Assange.