"Non si può più dire niente", vanno dicendo tutti. Sia chi lo pensa davvero sia chi ritiene che pensarlo sia da fasci. Ed eccoci qui a parlare di qualcosa su cui non si può davvero più dire niente: il lavoro, ve lo ricordate? Quella cosa che non succede mentre siamo impegnati a scrollare l'incredibile somiglianza tra Damiano dei Måneskin e Lady Diana, tizie no-mask che sclerano in aereo, sedicenti femministe su Instagram che corrono dal chirurgo "perché a 30 anni ti cade la faccia e non si può andare in giro così", qualche gattino carino, Civati che presenta orgogliosamente il nuovo libro di Lercio, miriadi di asterischi e sigle a cui ogni giorno si aggiunge una lettera e guai a perdersene una, è una questione di rispetto. Di quanto rispetto ci sia, invece, nel vedersi proporre una ciotola di croccantini a partita Iva in cambio di collaborazioni tanto saltuarie quanto schiavistiche non parla anima viva on e offline. È il precariato, bellezza. Roba che se hai 30 anni e sei più interessat* (non sia mai) a pagare l'affitto che al fatto che ti stia, a quanto pare, cadendo la faccia, non hai che da iscriverti a Babbel e studiare il sanscrito per esortare il maggior numero di divinità possibile in modo più circostanziato.
Il lavoro è quella cosa che non succede a Federica che si rompe la testa per cercare di sparare la cifra più bassa perché "se chiedo di farmi pagare quanto dovrei, prenderanno qualcun altro". Il lavoro è quella cosa che non succede a Diego che vive sul divano di casa dei suoi, abbellisce ogni giorno il proprio cv su Canva di un irresistibile giallo ocra e contatta dignitosamente il mondo nella speranza che qualcuno gli proponga un progetto "senza budget, eh? Ma molto interessante" sull'invenzione della forchetta. Il lavoro è quella cosa che non succede anche a chi un lavoro ce l'ha e accetta di farsi sfruttare h24 perché con lo sblocco dei licenziamenti sulla collottola, è meglio non fare troppe storie. Il lavoro è quella cosa che non succede a Sara quando una bella mattina in ufficio le viene detto "Questo è il tuo ultimo giorno, tagli dalla sede centrale". Il lavoro è quella cosa che non succede a Martino quando ingoia il suo master con una buona dose di Guttalax, si propone per fare il cameriere in qualche postaccio da venti euro al giorno "ma se ti fermano dopo il coprifuoco, non ci conosciamo" e si vede pure rimbalzare perché "con quel cv, cosa ci fai qui?".
Già, cosa ci fai lì a 30 anni (passati), Martino? Che cringe, direbbe chi ha un decennio meno di te ed è già stimato professionista, influencer di gallette di riso soffiato su TikTok perché come le mangia lui, nessuno mai. Sul suo talento a ingurgitare la colazione in modo troppo lol ci ha fatto un pezzo pure Repubblica, anzichenò. Il problema è, Martino, che tu quell'articolo l'hai letto e magari pure condiviso. Il problema è, Martino, che a te tutto questo sta bene perché fai parte di una generazione che ha smesso di incazzarsi, che ha scritto da sé il proprio epitaffio condannandosi ad accettare qualunque tipo di sfruttamento pseudo-lavorativo con un bel sorriso e profusi ringraziamenti sparsi. La sensazione, netta, di far parte di un sistema completamente marcio, sbagliato e degradante c'è ma, d'altronde, che ci puoi fare? È così per tutti, anche se non se ne parla nemmeno al primo maggio. Al concertone del primo maggio si parla di musica (non più balcanica) o, al massimo di DDL Zan.
Il lavoro è quella cosa che non succede e non c'entra la pandemia. Se hai 30 anni l'esperienza ti ha insegnato a non chiedere, a non pretendere, a non "creare problemi" nemmeno davanti alla più ridicola delle proposte a titolo gratuito perché, in ogni caso, è una proposta e l'hanno fatta a te. Non lo senti, il privilegio? Non lo sai che ci sono miriadi di zombie come te che farebbero un patto con Mefisto in drag pur di ricevere la stessa, impareggiabile, opportunità? Dire la verità crea scandalo dai tempi di Gesù Cristo o forse persino da prima e tu non vuoi essere lo scandalo, non puoi permettertelo. Quindi il cielo è verde, se volete, la beauty routine è fondamentale, i meme sono quello di cui abbiamo veramente bisogno e va tutto bene, vi ramazziamo pure la stanza Elio style ore pasti. E "com'è uman* lei", ci mancherebbe.
Moderni Fantozzi ma senza casa di proprietà, stipendio a fine mese, possibilità di metter su famiglia se riteniamo, prospettive, ci ritroviamo tutti in fila a obbedire al megaprecariato galattico, un'entità che fagocita titoli di studio, carriere, hard e soft skill come fossero davvero gallette di riso soffiato. Un'entità che ha mille volti, tutti rispettabilissimi e altisonanti che non vedono l'ora di offrire opportunità inconsistenti ma pregne di visibilità. La visibilità ce la potevano raccontare a 20 anni, ma non adesso, non più. E invece ancora cadiamo nella narrazione, fingendo di crederci. Non avendo mezzi per opporci, ne abbiamo fatto un fetish maso-cringe: ricerchiamo costantemente opportunità di sfruttamento perché l'alternativa è passare la giornata a guardare le pareti, proviamo dell'invidia sociale per chi riesce a farsi dare quei due croccantini che sarebbero stati nostri se ci fosse riuscito di essere più proni. Davvero, non è solo che ci siamo abituati. È che ormai ci piace pure. Just serving realness.
Come quando a fine giornata all'ombra del coprifuoco mentre "scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera" è solo l'incubo generazionale di un vecchio film dei primi '90, ci ritroviamo senza alcuna chance di scelta, ma lieti di farci l'unica domanda possibile, la meno dolorosa, quella più sinuosamente inutile ma in un certo qual modo confortante: "Scusi, chi ha fatto meme?".