La verità, che nessuno vi dirà, è che Giovanni Falcone ha perso. Sì, oggi, a 30 anni esatti dalla strage di Capaci lo descriveranno come un eroe, un grande uomo, diranno che il suo esempio resterà negli anni, negli animi, farà da guida ai giovani, esattamente come lo ha fatto alla mia generazione, e sarà tutto vero, ma l’altra verità, altrettanto vera, è questa.
Ci sono tanti Falcone. Non uno solo, quello stereotipato: c’è il Falcone procuratore a Trapani, più viveur e festaiolo, c’è il Falcone pre e post rivelazioni di Tommaso Buscetta e pre e post Maxi Processo, il più grande della storia italiana, centinaia di imputati, centinaia di ergastoli, miliardi di fogli, ore e ore e ore di testimonianze e interrogazioni, il processo che inquadrò per la primissima volta la situazione nel suo complesso: la mafia era Cosa Nostra, una associazione verticistica, organizzata, con una cupola che decideva tutto, chi doveva vivere e chi morire. Dopo, solo pena: condanne di primo grado ammorbidite, Falcone messo ai margini, attaccato dalla stampa, dai colleghi. E poi eroe. Da morto. Facile ricordarlo così ma ricordare non serve a niente se non ricordi anche che in vita Falcone veniva osteggiato, ghettizzato, delegittimato. Ipocrisia di Stato. Ipocrisia mediatica. Ipocrisia e basta. E infine c’è il Falcone che pur di riprendere tutto sotto di sé va a Roma per diventare il procuratore della Direzione Nazionale Antimafia ma scatena un casino: per tutti Falcone si era venduto alla politica, agli Andreotti, ai socialisti che lo avevano aiutato a creare quella posizione lavorativa.
Chi lo aiutò fu un ministro della giustizia, Claudio Martelli, socialista, appunto, che ha appena pubblicato un libro. Descrive i delitti di mafia su tre livelli: il primo fatto di contrabbando, estorsioni, sequestri; il secondo quello dei delitti come l’uccisione di un boss che non ha rispettato i patti. Infine, al terzo livello i delitti contro uomini dello Stato, magistrati e politici, poliziotti e carabinieri, quando diventano pericolosi per l’organizzazione stessa.
Ecco se per mafia intendiamo questa, la mafia è stata sconfitta. Non uccide più come una volta, non lascia morti per strada, non fa guerre allo Stato, non ha più un boss perché la storia di Matteo Messina Denaro dice che non comanda su tutti e su tutto. Ma la mafia ha raggiunto il suo obiettivo e non da oggi: è oramai un’altra cosa. È ovunque e chi non la vede è un cieco: potremmo mai sostenere metropoli con bar e ristoranti in ogni buco di culo, potremmo mai avere così tanta droga in giro per le strade, potremmo mai pensare di sopportare tutto il denaro nero che ci inonda se la mafia non si fosse globalizzata, rafforzata, divenuta parte essa stessa.
della nostra esistenza e quotidianità? La mafia si è inserita nel capitale, nella finanza e quindi, appunto, ovunque, si è resa (quasi, quasi) invisibile. E a noi tutti ci va bene così. Falcone, Borsellino e tutti quelli a cui dedichiamo piazze, vie, aeroporti, hanno perso. Mettetevelo bene in testa, pensateci anche quando acquistate quei dieci euro di maria, che vi fate una pippata tanto per, che accettate un pagamento in nero.
La verità è che chi lotta contro la mafia è condannato a perdere e lo sarà sempre, ma lottare è l’essenza stessa della sopravvivenza e della vita. Ricordare, se serve a qualcosa, a questo può contribuire: a farci capire che Falcone e gli altri come lui allora e gli altri come lui adesso hanno lottato, nonostante le diffidenze, i traditori, qualsiasi bassezza. E ognuno di noi può farlo, quando può, come può quando deve, perché Falcone era umano quanto lo siamo noi. Il resto sono simboli, targhe, cerimonie, foto, documentari, belle parole, nomi. Nomi da dimenticare per poi ricordarcene così, ogni tanto, ogni volta che ci fa comodo.