Dalle carte dell’indagine che ha condotto alla maxioperazione della Dia a Roma – nell’ambito della quale 43 persone sono state arrestate perché collegate a vario titolo ad attività mafiose e in particolare alla ’ndrangheta – sono emerse anche minacce a Klaus Davi, da tempo impegnato contro la criminalità organizzata, in particolare in Calabria. Secondo il gip Sturzo a Davi viene “rimproverato” in particolare “di aver attirato l’attenzione sulla ’ndrangheta a Roma avendo progettato di voler affiggere alle fermate della metropolitana i nomi dei boss calabresi e tra questi proprio Carzo e Alvaro, mettendo in pericolo la loro copertura”. Un’iniziativa che poi era stata bloccata dalla politica e riguardo alla quale il commento era stato “’sto sbirro ci rovina”. Abbiamo intervistato il giornalista-opinionista ed esperto di comunicazione per capire come stia vivendo questi sviluppi di cronaca giudiziaria.
Klaus, hai paura?
Certo, ho paura perché tutti sanno dove vivo, dov’è la mia agenzia, dov’è la mia casa, anche perché la mia casa fu protagonista di un fatto di cronaca e quindi finì su tutti i giornali. Quindi paura ne ho perché la paura è anche una forma di prudenza e di intelligenza, però le istituzioni le sento con me, non mi sento lasciato solo. Lo Stato è sempre stato al mio fianco, magistrati come Giuseppe Lombardo e Nicola Gratteri mi sono sempre stati vicini. Sono io che non ho mai voluto la scorta, anche se ho avuto varie minacce e intimidazioni in questi anni, non è certo la prima volta. Anche se questa è una cosca di enorme peso.
Cosa ci puoi dire di questa cosca?
Emerge la loro modernità, la loro attenzione al giornalismo e alla comunicazione, la loro capacità di interpretare anche i nuovi mezzi, Facebook e Instagram. Ancora una volta si dimostra più avanti di noi. Un’altra cosa che mi ha colpito è che loro seguissero tutti i miei movimenti e le mie attività, quindi la mia andata a San Luca, il fatto che fossi andato a Bovalino a casa del boss Giuseppe Calabrò. Questo ovviamente è un fattore di pericolo, ma dimostra anche l’attenzione maniacale che questa gente ha verso la comunicazione. Questo è un dato di queste indagini che magari non ha un rilievo penale, ma ha un rilievo comportamentale e di costume molto alto.
Dici di non essere stato lasciato solo dalle istituzioni, ma diresti lo stesso della “intellighenzia” e della società civile, quelle che magnificano per esempio Roberto Saviano?
Ritengo Saviano una persona che ha avuto il grandissimo merito storico di sensibilizzare sullo strapotere della camorra. Però la camorra non è una mafia come la ’ndrangheta. È una mafia più pulviscolare, meno religiosa, meno mitologica, mentre la ’ndrangheta è sottoposta a regole molto rigide, anche regole personali e di comportamento che nella camorra non ci sono. E poi il vincolo personale è prevalente. Il problema è che su questo tipo di tematiche si è più soli, ci sono anche più compromissioni. Nella campagna di cui si parla nelle indagini noi denunciavamo l’omertà della politica, e l’omertà della politica oggi conferma le tesi della campagna di cinque anni fa. Io sono un outsider dell’antimafia. L’antimafia è una struttura vecchia che non ha compreso i nuovi strumenti di comunicazione, culturalmente cattocomunista, quindi molto autoreferenziale. Io sono fuori, culturalmente sono un liberale di sinistra, ma non appartengo al cattocomunismo di cui è intrisa l’antimafia: il mio modo di procedere, di irridere la mafia e i boss della ’ndrangheta vestendoli da donne e raccontando la loro vita privata all’antimafia cattocomunista non piace. Però…
Però?
Però sono sicuro che questa cosa sarebbe piaciuta a Giovanni Falcone. Perché Falcone nel libro “Cose di Cosa Nostra” dedica un intero capitolo alla vita privata dei mafiosi, fa un’analisi quasi sociologica. Quindi tutti dicono di richiamarsi a Falcone, ma poi pochissimi in realtà applicano l’analisi che faceva Falcone. Pochissimi. Invece lui ha dedicato un intero capitolo proprio a queste cose.