Una importante operazione contro la ‘ndrangheta ha scoperto, per la prima volta, la presenza di una “locale” nella Capitale. Il termine è usato dagli stessi affiliati per indicare quella che di fatto è una emanazione, fuori dalla Calabria, di un clan. Una sorta di filiale, i cui capi rispondono alla “casa madre” e con essa decidono e si coordinano. Nel Lazio, grazie all’inchiesta coordinata dalle procure di Roma e Reggio Calabria, sono così finite in manette 38 persone, 5 agli arresti domiciliari, oltre ad essere scattati tutta una serie di sequestri di attività che pare siano legate a traffici illeciti. Ma la vera notizia è che la criminalità organizzata calabrese, che ha sempre fatto affari all’ombra del Colosseo – come tante altre mafie – stavolta aveva deciso di insediarsi stabilmente. Per capire meglio quanto sia rilevante questo aspetto, abbiamo contattato il maggior esperto di ‘ndrangheta, il professor Antonio Nicaso. Giornalista, saggista e docente, ha scritto numerosi libri sul fenomeno mafioso e alcuni, diventati poi bestseller, con il magistrato Nicola Gratteri. E proprio sulla figura dell’attuale procuratore capo della Dda di Catanzaro, per il quale domani (13 maggio) si terrà un sit-in di sostegno dopo le indiscrezioni emerse di un possibile attentato che le cosche avrebbero architettato per ucciderlo, ha ammesso di vedere alcune similitudini con una altro simbolo antimafia come Giovanni Falcone: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Il problema è che abbiamo ancora un sistema troppo politicizzato controllato dal correntismo (in magistratura, nda), che contribuisce a mortificare i meriti e far prevalere le appartenenze”. Gratteri, infatti, nonostante i risultati conseguiti, visto che “non è iscritto a nessuna corrente ogni volta che deve candidarsi per ottenere un incarico parte svantaggiato rispetto ad altri. Bisognerebbe – ha proseguito - cambiare certe logiche, ma soprattutto non celebrare le persone dopo la morte e riconoscergli i meriti quando sono in vita”. E infatti, per Nicaso, in vista delle celebrazioni del trentennale della Strage di Capaci (23 maggio, nda) “c’è grande ipocrisia, visto che tanta gente che ha fatto di tutto per ostacolare Falcone e Borsellino partecipa a queste manifestazioni e invece dovrebbe soltanto vergognarsi”.
Professor Nicaso, l’ultima inchiesta sulla ‘ndrangheta a Roma porta in dote una novità finora inedita. Dal suo punto di vista come si può interpretare?
Conferma la pervasività della ‘ndrangheta nella Capitale, che non si limita a fornire servizi legali e illegali, ma ora ha anche creato una “locale”. La novità è che finora Roma era considerata una “città aperta”, un luogo dove investire i proventi delle attività illecite. Invece questa indagine rivela un radicamento più forte, in trend con quello che sta accadendo in altri luoghi d’Italia dove sono state scoperte tante strutture simili della criminalità organizzata. Evidentemente, oggi la ‘ndrangheta oltre a gestire attività illecite pensa anche al governo del territorio…
In una intercettazione Antonio Carzo diceva: “Prima che arrivassi io tutta questa cosa bella non c’era”. E gli rispondeva Vincenzo Alvaro, considerato dagli inquirenti al vertice della “locale” capitolina: “Siamo una carovana per fare una guerra”.
La ‘ndrangheta è presente a Roma da decenni, ma tenendosi un po’ lontana dalla Capitale con strutture nell’hinterland. Penso a Nettuno. Creare un “locale” a Roma è qualcosa di inedito, perché nella logica delle mafie è sempre stata considerata una città per gli investimenti. Un luogo dove non è per forza importante controllare il territorio dicendo “questo è mio, questo è tuo”. Ora vuol dire che c’è questa volontà di radicarsi e quindi di cominciare a ragionare in termini di governance. Se andranno a fare la guerra non lo so, penso però che la eviteranno. Perché quando la ‘ndrangheta ha usato la violenza in modo non strategico ha avuto sempre conseguenze negative. Come dopo la strage di Duisburg, che ha messo la ‘ndrangheta sulla mappa mondiale del crimine. In Germania c’era l’idea della presenza di mafiosi, ma non di mafie. Negando però l’evidenza.
Quali sono gli altri aspetti che ci sfuggono delle mafie, mentre siamo stati impegnati con la pandemia e ora con la guerra in Ucraina?
Che le mafie sono fatte di uomini e questi cambiano, si evolvono come tutto ciò che li circonda. Ci sorprendiamo, per esempio, per l’utilizzo dei social, come se fosse un mezzo per loro da evitare. Mentre invece li usano come tutti noi. E ancora, ci perdiamo la capacità di capire che sono fenomeni che vivono all’interno di una società, che si adeguano e si evolvono. Così non deve stupire se ci sono broker della ‘ndrangheta in grado di pagare in criptovalute, o che sanno utilizzare sistemi di comunicazione con messaggeria criptata e non intercettabile che si fanno preparare da ingegneri informatici. Come Whatsapp, ma utilizzato da un numero ristretto di persone solo per messaggi cifrati. Così come la capacità di relazione. Le mafie sono il frutto di relazioni. La violenza contribuisce a crearle, quindi non bisogna sorprendersi quando vediamo le mafie che si affermano lontano dai territori di origine.
Eppure, ci sono ancora territori che faticano ad ammettere la presenza delle mafie.
Perché in generale le abbiamo analizzate da una prospettiva culturalista, come se fossero il prodotto di una mentalità di un territorio. Invece sono state legittimate anche al nord grazie a politici e imprenditori che hanno agito soltanto secondo logiche di convenienza.
Chi comanda oggi nella ‘ndrangheta?
Non c’è un “capo dei capi” sul modello di Cosa nostra, un Totò Riina che per tanto tempo governa l’organizzazione. Ma una struttura di raccordo che in qualche modo contribuisce a renderla unitaria. Il “capo crimine” è un personaggio che viene di volta in volta nominato per coordinare le attività del “Crimine”, evitare i conflitti, garantire l’applicazione delle regole. Poi ci sono delle famiglie con un lungo pedigree mafioso.
Quali sono?
Ci sono famiglie mafiose che vengono citate in documenti ufficiali già nel 1869. Come i De Stefano di Reggio Calabria, i Nirta e i Pelle di San Luca. I Mancuso a Vibo Valentia, gli Imerti a Condello, i Commisso a Siderno, i Grande Aracri a Cutro, gli Alvaro di Sinopoli che compaiono anche nell’indagine di Roma. Hanno tutte un peso specifico, ma non c’è un boss che sta al vertice di una gerarchia verticale e militarizzata come era quella di Cosa nostra.
Il 23 maggio verrà celebrato il 30ennale della Strage di Capaci. Lei che ha collaborato tanto con il magistrato Nicola Gratteri, vede qualche analogia con la figura di Giovanni Falcone?
Gratteri rifiuta ogni paragone. Ma è vero che emerge anche per lui, nonostante l’impegno, questa difficoltà nell’ottenere incarichi che sono alla sua portata, ma che non riesce ad avere perché viene superato da altri. In questo ricorda Giovanni Falcone. Come alla domanda per diventare Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria dove venne superato da Cafiero De Raho, così come alla domanda per diventare Procuratore nazionale antimafia, superato da Melillo. Gratteri da 30 anni vive sotto scorta e porta avanti una battaglia con grande coerenza. Ma non si è scomposto, se lo aspettava sotto tanti punti di vista e continua a fare il suo lavoro con la professionalità che lo caratterizza. Anche se ora potrà rimanere in Calabria fino al 2024, quindi deve trovare un’altra sistemazione. Se fosse per lui rimarrebbe tutta la vita, ma la legge non lo consente.
Domani, 13 maggio, si tiene a Catanzaro una mobilitazione in sostegno proprio di Nicola Gratteri dopo la notizia, degli scorsi giorni, di un possibile attentato che le cosche di ‘ndrangheta avrebbero architettato per ucciderlo. In Italia, come ha spesso notato qualcuno, non si riesce a celebrare da vivo chi porta avanti certe battaglie?
“Sventurata quella terra che ha bisogno di eroi” scrisse Bertolt Brecht. Non bisognerebbe percepire certe persone come degli eroi, ma come persone che fanno il proprio dovere con grande impegno, dovremmo vederli sotto quest’ottica. Il problema è che in magistratura abbiamo un sistema troppo politicizzato con il correntismo, che contribuisce a mortificare i meriti e far prevalere le appartenenze. Gratteri, che non è iscritto a nessuna corrente, ogni volta che deve candidarsi per ottenere un incarico parte svantaggiato rispetto ad altri sostenuti da una corrente. Bisognerebbe cambiare certe logiche, ma soprattutto non celebrare le persone dopo la morte e riconoscergli i meriti quando sono in vita. C’è grande ipocrisia nelle commemorazioni per le stragi.
Come mai?
Perché tanta gente che ha fatto di tutto per ostacolare Falcone e Borsellino partecipa a queste manifestazioni e invece dovrebbero vergognarsi. Più che commemorare, continuo a indignarmi per il fatto che sono passati 30 anni e non sappiamo tutto quello che è successo nella strage di via d’Amelio, non sappiamo dov’è finita l’agenda rossa di Borsellino, del depistaggio di Scarantino. Sono queste le cose che dovremmo ribadire con forza, al di là delle commemorazioni ipocrite.