“Con il mio volto sfido i clan”. È l’obiettivo dichiarato da Gaspare Mutolo, che dopo 30 anni sotto protezione e con un’altra identità ha deciso di rendere nota la sua faccia e lo ha fatto nella maniera più eclatante possibile: mostrandola sulla copertina di un settimanale. In questo caso di Oggi, il magazine diretto da Carlo Verdelli. Il pentito di mafia è così uscito allo scoperto, letteralmente togliendosi la maschera (come è stato ritratto da James Hill, fotografo del New York Times) e dopo il lungo programma di protezione ha raccontato tutta la sua storia al settimanale in edicola proprio oggi, giovedì 14 aprile. Una lunghissima intervista, divisa in due puntate, condotta dal giornalista Luigi Garlando. “Ho 82 anni” ha premesso l’ex autista di Totò Riina all’intervistatore che lo ha raggiunto in un luogo segreto dove vive sotto falso nome. “Negli anni che mi restano voglio scontare con la sofferenza il male che ho fatto e lasciare qualcosa di utile, attraverso le parole e i quadri”. Mutolo, che nel 1991 iniziò a collaborare con lo Stato sollecitato dal giudice Giovanni Falcone, oggi è un uomo libero e dal 7 aprile, dopo oltre 30 anni, è uscito dal programma del Servizio Centrale di Protezione. Dipinge quadri e spiega che sogna di “tornare a Palermo per parlare alle donne di mafia, alle mogli, alle figlie, affinché convincano i loro uomini a cambiare strada, perché la mafia è morte”. Da qui il titolo di copertina: “Donne della mafia salvate i vostri figli”. Nell’intervista-confessione, che si concluderà nel numero in edicola giovedì 21 aprile con altre 20 pagine di racconto, l’ex mafioso palermitano autore di 20 omicidi e complice di altri 70, parla anche “dell’incontro con Riina in carcere”, di un “piano per rapire Berlusconi” e dei suoi due grandi amori “la moglie Marò e la pittura”. Certo è che, passato così tanto tempo, in molti non sapranno più ricollocare la sua figura nella storia della criminalità organizzata siciliana. Andiamo quindi a ricordare perché Gaspare Mutolo è stato importante per debellare il clan che all’ora era considerato il più potente al mondo e che sfidò direttamente lo Stato Italiano.
Soprannominato “Asparino", di mestiere era meccanico ma ben presto decise di entrare nella malavita. Cominciò con i piccoli furti, fino a quando fu arrestato nel 1965 per associazione a delinquere. In carcere conobbe Totò Riina, compagno di cella per otto mesi e fu lui a consigliare a Mutolo la lettura de “I Beati Paoli” di William Galt, romanzo cult dei mafiosi, ma anche a suggerire l'uscita dalla microcriminalità e l'ingresso nella mafia (“più facile uccidere che rubare”, sosteneva Riina), raccomandandolo a Rosario Riccobono - boss dei quartieri Partanna e Mondello - non appena uscito dal carcere. Dopo una serie di arresti e scarcerazioni, nel 1973 incontrò Riccobono e Riina, nel frattempo in libertà, ed entrò in Cosa Nostra attraverso i riti della "Punciuta" e della “Santina bruciata” (immaginetta sacra). “Le cose essenziali sono queste: se un uomo d'onore sbaglia con una donna di un uomo d'onore, con una figlia o una sorella, il padre, anche con le lacrime agli occhi, deve strangolare il figlio. Non ci deve essere mai perdono, anche se passano trenta o quarant'anni: se uno fa la spia, nel letto sicuramente non ci muore, ma viene ammazzato dalla mafia, anche se ha cento anni. È un principio e si fa di tutto per non farlo morire nel proprio letto”, spiegò Riccobono dopo il giuramento.
Da allora divenne in breve tempo il più stretto collaboratore di entrambi e di Riina anche il fidato autista. Mutolo, però, rappresentò anche una figura operativa all’interno della mafia siciliana macchiandosi di qualsiasi tipo di reato: omicidi, estorsioni, intimazioni, sequestri. Nel 1975 fu coinvolto nell'omicidio dell'agente di polizia Gaetano Cappiello e rimase latitante fino al 1979, quando venne arrestato. Divenne poi un grosso trafficante di droga, in contatto con il singaporegno Koh Bak Kin conosciuto in carcere. Un lavoro remunerativo, che gli permise di possedere in poco tempo una Ferrari, un appartamento e di costruire una palazzina. Rimase anche coinvolto nell'omicidio e lupara bianca di Santo Inzerillo (fratello di boss ucciso Totuccio) che aveva attirato in un'imboscata. E ancora, il rapporto con Riina si rinsaldò quando il boss nel 1982 lo salvò dalla mattanza dei Riccobono, ma non dall'arresto per traffico di stupefacenti su mandato del giudice Giovanni Falcone e dalla reclusione nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano. Fu proprio tra le mura del penitenziario fiorentino che Mutolo si avvicinò all'arte. E grazie all'ergastolano Mungo, detto l'Aragonese, di cui ammirava la pittura durante l'ora d'aria. Finirono in cella insieme e per il mafioso siciliano fu l'inizio di un nuovo modo di comunicare, con colori e pennelli. In carcere conobbe anche Luciano Liggio e a sua firma dipinse alcune tele.
Ma è la storia successiva di Mutolo che, ai fini della lotta alla mafia, lascerà il segno. Nel 1986 venne coinvolto nel Maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, dopo la sentenza di primo grado (dicembre 1987), fu condannato a dieci anni di reclusione. Nel 1991 Falcone gli propose di collaborare. Le pressioni del magistrato e l'omicidio del mafioso Giovanni Bontade e della moglie, insieme all'arresto della consorte, spinsero Mutolo a collaborare. Falcone non ascolterà le sue dichiarazioni, perché era stato chiamato dal ministro Martelli alla direzione del dipartimento degli Affari penali, per proteggerlo dal clima di ostilità creatosi contro di lui in Sicilia. Mutolo si ritrovò così ad affidare le proprie rivelazioni, all'indomani della strage di Capaci, a Borsellino, che lo interrogò per l'ultima volta due giorni prima della strage di via D'Amelio. Fra queste, fecero particolare scalpore le sue accuse di collusione con Cosa Nostra nei confronti dei politici Salvo Lima e Giulio Andreotti, dell'ex funzionario di polizia Bruno Contrada, dei magistrati Corrado Carnevale, Carmelo Conti, Pasqualino Barreca, Domenico Mollica, Francesco D'Antoni e Domenico Signorino (che si suicidò non appena apprese la notizia).
Il 9 febbraio 1993 Mutolo venne sentito in audizione dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta dall'onorevole Luciano Violante, in cui ribadì le sue accuse di collusione di uomini delle istituzioni e della politica con Cosa Nostra. Ancora, ai primi di marzo 1993 fu anche grazie alle sue dichiarazioni che il pool antimafia della Procura di Palermo coordinato dal procuratore capo Gian Carlo Caselli fu in grado emettere cinquantasei ordinanze di custodia cautelare nei confronti di importanti esponenti di Cosa Nostra (tra cui Totò Riina) per oltre un decennio di delitti, dagli omicidi dei boss Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo (1981) a quello dell'imprenditore Libero Grassi (1991). Le dichiarazioni di Mutolo si rivelarono inoltre decisive per l'operazione "Golden Market", sempre coordinata dal procuratore Gian Carlo Caselli, che nel febbraio 1994 portò all'emissione di 76 ordini di cattura nei confronti di numerosi professionisti palermitani (medici, avvocati, impiegati di banca) accusati di essere vicini o addirittura affiliati a Cosa Nostra.
Infine, della sua collaborazione fece molto discutere che si accusò di omicidi che non aveva mai commesso e quindi fu in seguito smentito da altri collaboratori di giustizia, come Rosario Spatola che dichiarò di aver incontrato spesso Mutolo per concordare le accuse nei confronti di un avvocato messinese al fine di screditarlo. Più recentemente, nel 2020, è stato condannato a due anni di reclusione e 20mila euro di multa a titolo di risarcimento per aver calunniato l'ex magistrato Giuseppe Ayala, da lui accusato nel corso di un'udienza del Processo Borsellino quater di essere stato corrotto da Cosa Nostra con droga e denaro per ottenere condanne più lievi al Maxiprocesso di Palermo. Oggi, dopo tutto quello che ha passato, è un uomo libero, non è più sottoposto al Servizio Centrale di Protezione, e vive dipingendo quadri in una località segreta.