Sempre più battitore libero, Paolo Mieli: intervistato da Pietro Senaldi sul quotidiano della famiglia Angelucci, il due volte direttore del Corriere della Sera, annunciando il proprio appoggio ai referendum dei radicali e di Salvini sulla giustizia (“perché senza i referendum la Cartabia è perduta, e se aspettiamo i partiti per riformare la giustizia, stiamo freschi”) spara una serie di bordate senza risparmiare nessuno, nemmeno totem apparentemente intoccabili come Draghi e i vertici dello Stato.
Mieli su Libero inizia prendendosela con chi si accorge delle anomalie del sistema giudiziario solo quando viene coinvolto: “Finché non gli capita in prima persona, il politico non si cura del problema; anzi, casomai gode quando viene indagato un avversario. Poi, quando alla sbarra ci capita lui, si avvolge nella bandiera e denuncia la magistratura politicizzata, ma a quel punto è grottesco”.
Poi passa al Pd: “Ogni nuovo segretario, ormai penso che siamo al quattordicesimo, giura all’insediamento che mai si avvarrà dei giudici per far politica e si spende in nobili dichiarazioni di principio sulla giustizia”. Poi però? “Se l’avversario finisce in guai giudiziari, il Pd fa festa e ci marcia sopra. In trent’anni non ha mai eccepito né detto “questo è troppo”, neppure nel caso di Salvini indagato per sequestro di persona. È chiaro che i dem non metteranno mai mano alla magistratura. Hanno un vantaggio troppo evidente”.
Quanto al centrodestra, per Mieli “gli manca una classe dirigente adeguata” (e per lui avrebbe bisogno di un suo Ciampi o di un suo Prodi a fare da garante). Uno degli esiti è che “quando il centrodestra vince le elezioni, succede che prima o poi una sua componente si stacca per spostarsi a sinistra e consentire al Pd di tornare al governo anche se non ha i voti. E questo avviene immancabilmente con un aiutino della magistratura”.
Sulla carta stampata, Mieli si stupisce “che giornali così attenti al tema giustizia abbiano ignorato l’audizione di Palamara in Parlamento, che il Pd ha osteggiato fino all’ultimo. L’ex capo dell’Associazione Magistrati ha detto cose clamorose, ha spiegato nel dettaglio le logiche correntizie che hanno portato alla bocciatura per ruoli di primo piano di idoli dei giustizialisti come Di Matteo e Gratteri a favore di toghe meno conosciute ma meglio appoggiate politicamente”. Secondo Mieli questo avviene perché “dal 1992 le procure sono abbastanza generose nell’offrire aiuto alle ricerche giornalistiche in tema giudiziario. Solo un pazzo le attaccherebbe, facendo il nostro mestiere. […] Oggi però i magistrati sono così malmessi come immagine che è dura anche per i giornalisti aiutarli. L’unico modo possibile è omettere, non raccontare, come nel caso dell’audizione di Palamara o come nella vicenda di Amara e della loggia Ungheria, pietosamente scivolata fuori dalle cronache”.
Riguardo alla magistratura, per Mieli “quest’anno sono accadute cose clamorose. Magistrati indagati, Davigo che confida segreti nella tromba delle scale alla Commissione antimafia, monumenti del giustizialismo abbattuti, membri del Csm che perdono la reputazione. Eppure ci si avvia e eleggere i capi delle Procure di Roma e Milano nell’indifferenza mediatica, malgrado questo avvenga con le medesime logiche correntizie che hanno scandalizzato tutti”. E non è solo colpa dei giornalisti: “Ci sono cose clamorose che solo dallo Stato italiano non vengono viste”. Mieli non chiama direttamente in causa Mattarella (“il capo dello Stato non aveva i poteri per sciogliere il Csm”): per lo storico “è tutta la macchina dirigente dello Stato che si sta voltando dall’altra parte”.
E ancora: “Si sta sviluppando nei confronti della magistratura quel sentimento di rancore e intolleranza che nel 2006 venne innescato dal libro La Casta di Rizzo e Stella nei confronti della politica. Lo pubblicai sul Corriere della Sera e da allora mi dicono che ci sono io all’origine della nascita di M5S […]: stavolta non incolpate me se verrà fuori un movimento antigiustizialista, perché i suoi sintomi sono evidenti, come lo erano quelli dell’anticasta. […] Credo che lo spettacolo delle toghe che si fanno la guerra tra loro abbia deluso molti che credevano nella giustizia. Cosa avranno pensato i lettori del Fatto Quotidiano, che ha a lungo esaltato Di Matteo, quando hanno scoperto che il ministro Bonafede lo ha scaricato? Ma è solo un esempio”.
Per Mieli anche nei procedimenti contro Salvini (“il Berlusconi di oggi”) c’è qualcosa che non va: “Come può una procura assolvere e l’altra condannare un ministro per un medesimo comportamento, basandosi solo su differenze minime? I magistrati non possono andare in ordine sparso a seconda delle simpatie o dei dettagli in vicende così importanti”. Per Mieli però alla fine i giudici la passeranno ancora liscia: “Al cento per cento. Sono ammaccati, non più indomiti, ma […] il loro potere reale non è stato minimamente intaccato”.
Su Draghi (al quale al momento dell’insediamento Mieli disse “Attento ai pm”), secondo l’ex direttore del Corriere per adesso non rischia, “visto che ancora non si è avventurato sul terreno giustizia”, ma “sulla Rai traccheggia, perde settimane preziose, fa il democristiano prudente, […] una furbizia che sarà pagata a caro prezzo, soprattutto se i grillini si spaccheranno e partirà una guerra per bande”.
E a proposito di pentastellati, Mieli parla anche del caso del figlio del fondatore, Ciro, accusato di violenza sessuale assieme a tre amici. Perché il caso Ciro Grillo è esploso solo dopo la caduta del governo giallorosso? “Osservo cose singolari. La notizia era enorme. La denuncia fu fatta a luglio ma non se ne seppe nulla per due mesi. Poi le indagini sono andate avanti lentissime e la copertura mediatica è stata minima. Arrivato Draghi, l’inchiesta ha avuto una legittima accelerazione e i giornali hanno iniziato a trattare approfonditamente la vicenda”.
Mieli non si spinge a dire che Bonafede “coprisse” il figlio di Grillo, ma “forse Grillo si sarà illuso che, se non si fosse agitato politicamente, i magistrati avrebbero agito con calma e avrebbero guardato più agli elementi a discolpa di Ciro e meno a quelli che lo inchiodano. E si è illuso che questo valesse anche con il governo Draghi, che infatti alla fine ha sostenuto. Quando si è accorto che le cose andavano diversamente, è arrivato il famigerato video”.