Continuano a procedere in parallelo, le vicende di Piero Amara (colui che ha sollevato la questione della loggia Ungheria) e di Luca Palamara (protagonista del sistema di nomine all’interno della magistratura). Nell’ultima delle vicende giudiziarie che l’hanno coinvolto, l’avvocato Amara è accusato dalla Procura di Potenza di concorso in corruzione per le interferenze nelle nomine dell’ex procuratore di Trani e di Taranto Carlo Maria Capristo. Dopo tre settimane di carcere, un interrogatorio con il giudice che l’ha fatto arrestare e altri due con i pubblici ministeri che conducono le indagini, per lui è stato disposto l’obbligo di dimora nella sua casa romana. L’ex legale esterno dell’Eni alla fine del 2019 parlò con i magistrati milanesi appunto della famigerata (quanto presunta) loggia Ungheria, poi con quelli di Perugia della presunta corruzione dello stesso Palamara, all’epoca componente del Consiglio superiore della magistratura. Per la Procura di Potenza le accuse dell’avvocato Pietro Amara possono essere credibili.
“Il contenuto dei verbali davanti al procuratore Francesco Curcio – riferisce il Corriere – è ancora riservato, mentre quello dell’interrogatorio di garanzia con il gip Antonello Amodeo del 10 giugno (due giorni dopo l’arresto) rappresenta una sorta di sintesi di ciò che Amara ha detto, intende dire o minaccia di dire. «Io volevo venire da lei a raccontare le cose di Milano — sostiene rivolto a Curcio, presente all’interrogatorio — perché non è un’indagine che si può trattare in quel modo in cui è stata trattata, con paura e senza aggressività». Si aspettava altro, l’avvocato che da accusato è diventato accusatore”. Altre frasi riportate sono: “«Io avevo relazioni dimostrate... con Cosimo Ferri (giudice-deputato renziano che da leader della corrente Magistratura indipendente secondo il Corriere avrebbe fatto accordi con Palamara, ndr), immediatamente e dirette. Una volta abbiamo gestito un voto all’interno del Csm alla Galleria Sordi (noto luogo di ritrovo al centro di Roma, ndr)». Era, dice Amara, il processo disciplinare contro l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco, prima trasferito e poi prosciolto: «Intervenne Palamara e neppure la censura. Bacci (imprenditore già socio di Tiziano Renzi, ndr) e la Boschi (ex ministra renziana, ndr) intervengono su Fanfani (ex membro del Csm, ndr) e questo era il funzionamento della sezione disciplinare».
Per il Corriere “la veridicità delle affermazioni di Amara è tutta da dimostrare, ma in certi passaggi sembrano ricalcare le note intercettazioni tra alcuni consiglieri (poi dimissionari) del Csm e il trio Palamara-Ferri-Lotti sulla battaglia per la nomina del procuratore di Roma, con le guerre intestine che avevano nel mirino anche il procuratore aggiunto Paolo Ielo: «E sostanzialmente, mi dispiace dirlo... che è persona per bene, l’obiettivo è proprio che arrivasse Viola perché così — testuali parole — “Ielo se ne andava a fare le fotocopie!”». Quanto alle vicende tarantine e dell’ex Ilva per cui è accusato, […] Amara sminuisce il proprio ruolo e sposta l’attenzione sull’ex commissario Enrico Laghi”.
Si passa poi alle note di colore: “Secondo l’avvocato, nel mondo delle toghe che aspiravano a promozioni o qualche incarico, «c’erano magistrati che non avevano nessuna intenzione di incontrare politici e ce n’erano invece, non solo Capristo, che volevano incontrare anche il netturbino se potevano raggiungere un certo risultato... Forciniti (ex consigliere del Csm, ndr) una volta chiese la maglietta della Juventus sudata; doveva essere sudata, di Pogba. Uno che fa queste richieste ha problemi seri...»”.
Quanto a Palamara, il magistrato radiato (che dopo aver fatto ricorso spera che il provvedimento venga ribaltato) è stato sentito in commissione antimafia, nonostante l’ostruzionismo dell’ex presidente del Senato Piero Grasso (Pd): l’ex presidente dell’Anm ha dichiarato che le correnti della magistratura decisero che bisognava “fermare” la carriera del pm antimafia Nino Di Matteo, in quanto da “battitore libero” avrebbe potuto creare problemi al “Sistema”.
“Il racconto di Palamara, che proseguirà la prossima settimana – riferisce Libero – inizia con la nomina del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato nel 2012 e si conclude con quella del capo del Dap Francesco Basentini nel 2018. A fare da sfondo, il processo Trattativa Stato-mafia”. Tornando a Di Matteo, “nel 2015 il pm decide di candidarsi alla Direzione nazionale antimafia. A sostenerlo al Csm c’è il togato Aldo Morgigni, che con Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita fonderà la corrente Autonomia&indipendenza, e Piergiorgio Morosini, gip proprio del processo trattativa ed esponente di Magistratura democratica. La maggioranza, però, è contro Di Matteo. Una sua nomina alla Dna, racconta Palamara, potrebbe coinvolgere l’antimafia «nelle tensioni politiche e istituzionali che già si erano manifestate durante tutta l’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia». Tensioni che erano arrivate fino al Quirinale con la morte, a causa di un infarto, di Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del capo dello Stato. D’Ambrosio è stato «vittima di una campagna violenta e irresponsabile», dirà Giorgio Napolitano. All’interno della magistratura, prosegue Palamara, «vi era chi nutriva i dubbi sulle forzature di quel processo che Di Matteo stava portando avanti a Palermo». La corrente progressista Area, in particolare, «di Di Matteo in quel posto non voleva sentirne parlare, tanto che non lo votò. La realtà è che la magistratura non vuole e non permette, per invidie e gelosie di prime donne, l’uomo solo al comando»”.
Il secondo stop a Di Matteo è arrivato invece nel 2018, come raccontato dallo stesso magistrato a Piazzapulita. Con i grillini al governo, si fa il nome di Di Matteo come capo del Dap: “La nomina di Di Matteo a un incarico così importante può, però, rafforzarlo e il «Sistema» si attiva ancora una volta per bloccarlo. Il capo del Dap, infatti, gestisce una grandissima mole di informazioni riservate”. Palamara ha parlato anche di Nicola Gratteri, “che Matteo Renzi – sottolinea Libero – avrebbe voluto ministro della giustizia: anche il procuratore di Catanzaro, magistrato fuori dagli schermi, sarebbe stato stoppato dal «Sistema»”.
Secondo la Verità, inoltre, “un ampio capitolo è dedicato alla nomina del procuratore di Palermo, ovvero dell’inquirente che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia. Il candidato di Palamara, all’inizio, è Guido Lo Forte, a cui era stato assicurato sostegno anche dall’ex procuratore di Roma, il siciliano Giuseppe Pignatone: «Quest’ultimo, in quel momento era un pezzo forte del “Sistema”, anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente Giorgio Napolitano», scrive Palamara. «Ma Lo Forte nell’ambiente era considerato un magistrato sostenitore dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, che come noto lambiva, per usare un eufemismo, il Quirinale»”. Ma poi, “«In prossimità del plenum che doveva, come da accordi, varare l’operazione Lo Forte, arriva al Csm una lettera del capo dello Stato che invita a rispettare nelle nomine l’ordine cronologico, che non vede Palermo al primo posto. La nomina di Lo Forte quindi slitta, e siccome il Csm è in scadenza tutto viene rinviato alla tornata successiva». Cioè quella in cui verrà eletto Palamara. Il quale prosegue: «Pignatone sente puzza di bruciato e nonostante sia molto amico di Lo Forte cambia cavallo. Mi convoca e mi dice: “Si va su Lo Voi (Franco, ndr)”. Su decisioni di questa portata il Quirinale è sempre in partita»”.