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Le femministe italiane
non servono a niente

  • di Ray Banhoff Ray Banhoff

9 febbraio 2021

Le femministe italiane non servono a niente
Dove sono le femministe quando servono? Perché non prendono le difese di Ylenia e Martina?
Analisi di un silenzio che fa male.


di Ray Banhoff Ray Banhoff

In questi pochi mesi che sono passati dalla nascita di Mow mi è capitato spesso di parlare con lettori e amici che mi hanno velatamente accusato: perché collabori con un magazine così maschilista?
Io rimanevo interdetto. Professionisti, colleghi, gente colta, tutti a sottolineare che su Mow la visione della donna fosse in un certo senso antiquata. Non lo motivavano, ma lo lasciavano intendere. Io non capivo, rispondevo che siamo un maschile e tentavo di motivare le nostre scelte, ma loro rimanevano della loro idea. Poi arriviamo ad oggi, alla pubblicazione del nostro lavoro su Martina e Ylenia, le due ragazze stuprate da Genovese e mi chiedo: come mai tutti questi grandi moralisti non stanno spendendo parole di riflessione sulle due ragazze? Ma soprattutto: dove sono le femministe? Dove sono le sostenitrici del #metoo, dove sono quelle donne che scrivono “attivista” sotto alla foto profilo? Tacciono. 
Su Instagram non trovo un post che sia uno delle più note influencer femministe e  commentatrici del web. Da Carlotta Vagnoli a Giulia Blasi, da Jennifer Guerra a Freeda, a Irene Facheris, nessuna di loro ha dedicato un momento alla nostra storia. Ma del resto da una che sotto al profilo ha scritto: “io non volevo rompere l’internet, io volevo rompere il cazzo” cosa ci si può aspettare?
I loro profili sono più da influencer che da intellettuali, di solito promuovono la loro attività, i loro libri o i podcast, i talk che tengono oppure ostentano foto in pose da Onlyfans (ma se glielo dici ti becchi uno shitstorm come quello che è piovuto su The Pozzoli’s family). 

 

Giulia Blasi
Giulia Blasi
Carlotta Vagnoli
Carlotta Vagnoli
Jennifer Guerra
Jennifer Guerra

Il fatto è questo: me lo aspettavo. 
Non ho mai letto o seguito una polemica degna di nota da parte delle cosidette femministe italiane. Le loro battaglie culturali sono per i nomi che non vanno coniugati al maschile o al femminile ma con l’asterisco in fondo, oppure fanno stories e talk sull'importanza della masturbazione e dello squirt. Spesso le vedi che maneggiano un dildo o che nelle Stories dicono che si sono fatti un plug come regalo di compleanno. Come se fosse “figo”. Immaginiamoci un uomo che parla di quanto sia importante farsi le pippe. Lo prenderemmo per scemo.
Detta peggio: le femministe di Instagram non servono a niente, anzi per ognuna di loro ogni giorno una donna viene umiliata.
Insorsero contro Gramellini e altri giornalisti perché si erano permessi di citare il burlesque tra le attività della Fruci. Orrore, cosa c’è che non va in una donna che fa il burlesque? Niente, Cristo, il problema infatti è che fosse una raccomandata e che si fosse fatta notare al massimo per un libro sul burlesque prima di prendere l’assessorato alla cultura di Roma che vale quanto un ministero. L’avrebbero dovuta scaricare le femministe, avrebbero dovuto proporre i nomi di altre donne e invece l’hanno difesa. Perché il burlesque è figo.
Mi fece ridere una polemica di alcune contro una donna che si era rifiutata di obbedire al bagnino in piscina, lei voleva stare in topless. Schifoso bagnino! Ognuno vale uno! L’uomo può stare a petto nudo e la donna no? 
Ecco le grandi battaglie di queste influencer che di fronte a un fatto di cronaca, raccontato dalla bocca di due protagoniste ventenni, rimangono in silenzio. La realtà è qualcosa che richiede più sforzo di un post o una Stories e allora meglio il silenzio, no?

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Le battaglie femministe di Freeda

Così quelli a dar voce a due ragazze di appena vent’anni finite nelle mani di un pazzo, siamo stati noi maschilisti di MOW.
Sui nostri social sono arrivati un sacco di messaggi di ringraziamento da parte di donne, ma altrettanti insulti. Sono le femmine le prime a volersi dissociare dalle due ragazze, accusate di essere fintamente ingenue, di speculare sulla tragedia per diventare famose. Tutte buone a dire: che ci facevate in quella stanza? Tutte a far intendere che un po’ se la sono cercata. 
Lo fanno anche con Paolina, che noi abbiamo messo in una tra le prime cover che abbiamo fatto. In questi giorni sotto un post che la riguarda sono spuntati un sacco di “zoccola” e commenti del genere. 
La solidarietà non può essere sempre e solo una campagna virale o una challenge, un hashtag o un commentino sui social, richiede di metterci la faccia. Altrimenti sono solo discorsi, status, frivolezze.

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