“Avere un pensiero unico, assiduo, di tutte le ore, di tutti gli attimi; non concepire altra felicità che quella, sovrumana, irraggiata dalla sola tua presenza sull’esser mio; vivere tutto il giorno nell’aspettazione inquieta, furiosa, terribile, del momento in cui ti vedrò” - L’ha scritto Gabriele D’Annunzio, ma l’hanno ridetto anche gli occhi di Pecco, nella foto pubblicata da Ducati in cui il campione del mondo di MotoGP guarda il suo nuovo numero. Nuovo e unico: l’uno. L’uno che puoi scegliere, ma solo dopo che ti spetta. L’Uno che guardi così.
Pecco Bagnaia prima se l’è guadagnato e poi lo ha scelto, un po’ per rendere omaggio a Ducati, tornata sul tetto del mondo dopo tanti anni e dopo un certo Casey Stoner, e un po’ per rendere onore a una storia: la sua. Quella di un ragazzo che, come ci ha raccontato suo papà ormai qualche mese fa, si è innamorato delle motociclette prima ancora di imparare a scriverla quella parola: motocicletta. Ma non se ne è innamorato come si ama in un innamoramento, l’ha fatto come si fa in un amore grande: con selvaggia ostinazione.
Selvaggia ostinazione. Eccolo là Gabriele D’Annunzio che ricorre ancora. Sì, perché sarà che le grandi passioni si finisce sempre per volerle vedere insieme, ma negli occhi di Pecco che guarda l’Uno sul cupolino della sua Desmosedici 2023 c’erano i passaggi di due romanzi del vate: il Fuoco e il Piacere. Che poi non sono solo due titoli, ma pure due modi per celebrare quell’intensità che spinge verso qualcuno, o qualcosa. Fosse anche una motocicletta o l’ideale della Vittoria: “Tu esalti la mia forza e la mia speranza, ogni giorno. Il mio sangue aumenta quando ti sono vicino; e tu taci. Allora nascono in me le cose che con il tempo ci meraviglieranno”. O, ancora, “e credere in te soltanto, giurare in te soltanto, riporre in te soltanto la mia fede, la mia forza, il mio orgoglio, tutto il mio mondo, tutto quel che sogno e tutto quel che spero!”
Tutto quello che sperava e tutto quello che sognava, Pecco Bagnaia l’aveva riposto, già bambino, sulla sella delle moto, puntando i piedi per correre e per puntarli, questa volta fisicamente, sulle pedane. Fino al numero Uno. Spingendo forte per restare ancorato all’asfalto e contemporaneamente a quel sogno che nel frattempo era diventato progetto. Nel mondiale c’è arrivato da ragazzino, dopo tutta la trafila delle minimoto, ma con un fisico che generava sfiducia. Non in lui, non in chi gli voleva bene davvero, ma in tutti quelli che hanno sempre una formula scientifica per prevedere quel futuro che invece di scientifico non ha mai niente.
E’ troppo piccolo, è troppo gracile, è troppo arrendevole. E’ questo che Pecco si sentiva dire da ragazzino, da chi non sapeva tener conto di quanto quella sua selvaggia ostinazione fosse, invece, l’esatto contrario di troppo piccola, troppo gracile, troppo arrendevole. Ha lottato e l’ha ottenuto, con una Ducati che ha lo stesso colore del fuoco e del piacere: rosso.
Nel 2013 o giù di lì stava per smettere, ma, per dirla alla D’Annunzio, Pecco Bagnaia è uno che ardisce e non ordisce. Avrebbe potuto sparare su un team fatto da gente che con le moto aveva nulla a che spartire, avrebbe potuto fare tutto in quel momento lì, passando da ragazzino a cui era stato venduto un sogno e che poi era stato abbandonato. Invece ha fatto l’unica cosa che si poteva fare: restare ancorato all’impulso di correre. Al desiderio di vincere. Alla consapevolezza del proprio talento. Con l’unica moto possibile in quel momento: una Mahindra che tutti consideravano troppo piccola, troppo gracile, troppo arrendevole. Ha lottato e ha ottenuto, perché con quella moto Pecco Bagnaia da Chivasso ha pure vinto, gettando le fondamenta di un sogno che s’era fatto progetto e poi cantiere. Mentre il 21 della Moto3 diventava il 42 della Moto2, assaggiando per la prima volta il Piacere di essere sul tetto del mondo, trasformandolo nel Fuoco di chi ne vuole ancora. Più alto e più oltre, fino al 63 della MotoGP. Fino alla Ducati, ma da quella porta laterale che si chiama Team Pramac.
Con un verbo, “lottare”, che ormai suonava già di dolcezza e di futuro. E pure a ragione, visto come sono andate le cose, ma et ventis adversis; anche con i venti contrari, dopo l’infortunio che lo ha portato in sala operatoria, dopo un primo impatto con la Desmosedici ufficiale non proprio esaltante e dopo essersi ritrovato, alla seconda stagione sulla Rossa del Team Lenovo, con quelli delle squadre satellite che andavano più forte, Fabio Quartararo che prendeva il volo e la storiaccia mal raccontata (e pure strumentalizzata) di una notte a Ibiza.
Il resto è storia vera. Storia che Pecco ha voluto. Storia che Pecco ha scritto mettendoci tanto di quel bambino che aveva solo un sogno, che per quel sogno ha lottato, ma con la grazia e il garbo – e quasi la timidezza – di chi per troppo tempo s’è sentito dire di essere troppo piccolo, troppo gracile, troppo arrendevole. Probabilmente troppo unico come è unico l’Uno, il numero dei primi. Il simbolo per cui Pecco Bagnaia ha lottato, il diritto che Pecco Bagnaia ha ottenuto e che adesso terrà. Ma non tenere inteso come mantenere, bensì tenere inteso come “fare proprio” o “rendere suo”. A prescindere da come andrà nel 2023, ma con una promessa per tutti: “Lascio il 63 per l’1: è l’identità di un campione. Tornarò al 63 più tardi possibile”. L’ha detto Pecco Bagnaia da Chivasso, ma potrebbe averlo scritto anche un Gabriele D’Annunzio in tuta rossa e stivali. Mandando, di fatto, il primo potente messaggio della MotoGP 2023 prima ancora che la MotoGP 2023 accendesse i motori, in un momento in cui si dice che lo sport non ha più messaggi da far arrivare ai giovani (e non solo): cercate qualcosa o qualcuno da guardare (o che vi guardi) come Pecco Bagnaia guarda l’Uno sul cupolino della sua Desmosedici.