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"Io lo volevo fantino": il babbo di Pecco Bagnaia ci ha raccontato tutto. Anche come è andata con Valentino Rossi e quell'unica volta che hanno litigato...

  • di Emanuele Pieroni Emanuele Pieroni

25 ottobre 2022

"Io lo volevo fantino": il babbo di Pecco Bagnaia ci ha raccontato tutto. Anche come è andata con Valentino Rossi e quell'unica volta che hanno litigato...
«Quando arrivarono da me Valentino e Uccio me lo ricordo come se fosse oggi. Mi dissero che credevano nel suo talento, ma che lo vedevano tremendamente triste. Il resto è storia che conoscete tutti». È vero, ma la storia che c’è prima di questo episodio invece non la conosce nessuno. E ce la racconta in esclusiva il padre di Pecco Bagnaia, il “quasi” nuovo campione del mondo di MotoGP, il primo ducatista dopo Casey Stoner. Dai sacrifici che non pesavano all’importanza della famiglia: da questa intervista si capisce perché Pecco Bagnaia è così com’è

di Emanuele Pieroni Emanuele Pieroni

Ma chi è Pecco Bagnaia? Di lui, del “quasi Casey”, sappiamo tutto, perché ormai sono un paio d’anni che vince come un martello con la sua Desmosedici e perché adesso è pure a soli due punti dal riportare a Borgo Panigale quel titolo mondiale piloti che mancava dal 2007, dai tempi, appunto, di un certo Casey Stoner. Pecco nel box con sua sorella Carola, Pecco con l’inseparabile compagna Domizia, Pecco che ha rimesso il sorriso dietro al pizzo sempre imbronciato di Gigi Dall’Igna. Maturo com’è, preciso come sembra, viene da pensare che Francesco Bagnaia bambino non lo sia mai stato. Ma è ovvio che non è così e tutta la storia che c’è dietro al “QUASI” campione del mondo ce la siamo fatta raccontare da suo babbo Pietro. Una mezz’ora buona al telefono, chiudendo la linea con una certezza: ecco perché Pecco è così!

Dicono che dietro ogni pilota c’è sempre un babbo ancora più appassionato del figlio, è andata così anche con Pecco?

Ma che?! Assolutamente no. Io, come anche mio fratello, sono appassionatissimo di cavalli: lo volevo fantino! In verità c’ho provato con tutti i miei figli, ma non c’è stato verso. Per carità, le moto mi sono sempre piaciute, le ho avute e ho fatto pure qualche turno e qualche gara in pista, ma non posso certo dire di essere stato uno di quei padri che crescono i figli a pane e motociclette. Pecco ha fatto tutto da solo!

Cioè?

Giocava solo con modellini di moto e macchinine, non gli piaceva altro. Poi una volta l’ho portato con me e mio fratello ad un evento che aveva a che fare con le moto e sembrava letteralmente impazzito, io non ho mai visto una luce così negli occhi di un bambino. Era piccolissimo, ma aveva già deciso.

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Sacrifici? Quando vedi un figlio così felice e ostinato nel fare quello che gli piace di sacrifici non ti viene da parlare

E poi?

Poi ho lasciato passare ancora un po’ di tempo e intorno ai sei o sette anni, visto che lo chiedeva in continuazione, l’ho portato a girare con le minimoto: non voleva scendere più. Per qualche mese siamo andati avanti così, con le motine a noleggio sui piccoli kartodromi qui intorno, ma erano mezzi che si rompevano in continuazione. Non c’era giorno che non mi chiedesse di andare. Però per me era un gioco, un modo per passare del tempo con mio figlio, e non ho mai pensato di comprargliene una sua, fino a quando una volta è caduto perché da una di quelle minimoto s’è staccato il serbatoio. Trovai un usato a buon prezzo, una motina tutta rossa, quasi un segno del destino. Quella è stata la sua prima minimoto, ma per noi restava assolutamente solo un gioco. Io sapevo solo due cose sulle minimoto: come si fa la miscela e come la si carica in macchina. Per il resto deserto assoluto. Girava su piazzali privati e qualche volta nei piccoli circuiti, ma sempre con la stessa rapportatura, mai con mezza modifica, anche perché non sapevo proprio cosa significasse. Andammo anche a Alessandria, a un evento della FIM, e lì ci rendemmo conto che andava forte. Il resto lo ha fatto un mio carissimo amico. Mi disse “perché non gli fai fare qualche garetta? Magari è più sicuro rispetto al girare così, è più controllato e impara anche qualcosa”. M’è sembrata una buona idea e siamo partiti.

È lì che tutto s’è fatto più serio e avete capito che le corse in moto avrebbero potuto essere molto di più di un semplice passatempo da condividere con il babbo?

No. Quello lo abbiamo capito molto tardi, ma è andata bene così. Anzi, forse il fatto che le moto erano e dovevano restare un divertimento ha rappresentato un po’ la chiave di tutto. Lo accompagnavo a queste gare, in mezzo a ragazzini che si allenavano come professionisti, super attrezzati di tutto e con alcuni genitori mezzi invasati. Noi invece ci divertivamo e basta, ma arrivavano pure i risultati. Vinci oggi, vinci domani, Pecco s’è classificato per le finali del Campionato Italiano. Però anche lì non pensavamo al futuro, io in particolare vedevo le minimoto come qualcosa di troppo distante dalle moto vere: niente cambio, niente sospensioni, tecnica differente. E vedevo Pecco tanto piccolino per pensare di metterlo sopra alle MiniGP e comunque a moto più grandi. Contestualmente, però, lo vedevo felice, gli brillavano gli occhi. Ci sono due cose in cui credo fortemente: i giovani e i sogni. Figuriamoci quanto posso credere a un giovane che sogna. E figuriamoci quanto ci ho potuto credere visto che quel giovane che sognava, con quella passione e quella intensità, era mio figlio.

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Quanti sacrifici avete dovuto fare?

Nella storia del motorsport si raccontano aneddoti incredibili su padri, figli, debiti disumani e furgoni. Io però devo essere sincero: fatica ne abbiamo fatta come bisogna farne sempre, ma non riesco a parlare di sacrifici. Forse siamo stati più fortunati di altri, ma mi viene da dire che quando vedi un figlio così felice, così impegnato e ostinato nel fare quello che gli piace, di sacrifici non ti viene da parlare. Penso di poter dire che io di sacrifici non ne ho fatto neanche uno. È una storia di famiglia, siamo stati sempre tutti insieme, è stato bellissimo e il fatto che oggi Pecco sia così legato a tutti noi e anche al ricercare sempre un ambiente che sembri un po’ casa è probabilmente figlio di questa storia. La spinta è venuta sempre da lui, è lui che ci ha trascinati tutti, mantenendo sempre un taglio di leggerezza. Andare a correre significava stare insieme e divertirsi, al futuro non ci si pensava proprio, o forse ci pensava solo Pecco con la sua determinazione. Solo una volta abbiamo litigato!

Ora che lo ha detto, deve pure raccontarci come è andata!

L’ho minacciato che avremmo smesso. C’erano dei genitori che avevano piazzato una mega litigata di gruppo per cose accadute in pista tra i bambini. Una scena decisamente brutta e Pecco c’era rimasto male, un po’ perché si era innervosito oltre il limite e un po’ perché io m’ero tenuto fuori da quella gazzarra che, francamente, trovavo fuori luogo. Non so se si aspettasse che andassi a buttarmi nella mischia, ma gli dissi che se l’ambiente era quello e lui avesse continuato a soffrirlo così tanto, invece di pensare solo a divertirsi, avremmo cambiato sport. Non disse più niente e quella è stata l’unica volta in cui ho dovuto alzargli la voce in tutta la sua carriera. Alzare la voce con Pecco è impossibile: è veramente un bravo ragazzo e anche quando combina qualcosa ha quel modo lì che gli perdoni tutto. Anche a scuola era bravo, ha fatto il suo percorso scolastico senza particolari problemi, ma anche lì aveva un vizio.  Ma anche i voti, devo ammettere, sono stati sempre buoni. Episodi per cui ci abbia fatti dannare non me ne ricorso, pensa che non aveva neanche il motorino. Pecco ha preso la patente per la moto solo qualche mese fa, usa le due ruote su strada solo per andare in spiaggia con Domizia, visto che vivono vicino al mare.

Quando vedi un figlio che fa avanti e indietro dalla Spagna e invece di stancarsi, sembra più contento, ti rendi conto che la strada è presa e che un’altra non ce ne è

Dopo le minimoto cosa è successo?

Ha corso con la MiniGP 50, facendo anche molto bene. Non vorrei sbagliare, perché adesso su due piedi non mi ricordo benissimo, ma mi pare che abbia perso il Campionato Italiano quell’anno solo perché non aveva potuto partecipare a una o due gare del calendario. Vinse, però, l’Europeo. Dopo la MiniGP in Italia c’erano le SportProduction, ma le vedevo enormi e non ero molto convinto, perché Pecco era proprio piccolino, ma piccolino davvero di stazza. Ne parlai con un mio parente, Umberto Milesi, il proprietario della Galfer, e lui mi mise in contatto con Emilio Alzamora. E’ con Alzamora che ha imparato tutto e è lì che forse ho pensato per la prima volta al futuro.

Che significa aver pensato per la prima volta al futuro?

Quando vedi un figlio che fa avanti e indietro in continuazione dalla Spagna, rinunciando a tutto e che ogni volta, invece di stancarsi, sembra più contento, ti rendi conto che la strada è presa e che un’altra non ce ne è. Svegliarsi presto, sballottarsi di qua e di là, stare tutto il giorno in circuito in Spagna e poi andare a scuola, dormire una volta in un hotel e una volta in un altro sono cose che alla lunga stancano. Pecco, invece, preparava la valigia appena ritornava, perché era sempre pronto a ripartire per fare l’unica cosa che gli interessava veramente: correre in moto.

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Il Motomondiale è arrivato subito dopo…

Sì, aveva quindici anni e vinceva nel CEV quando mi dissero che il Team Italia lo voleva per il mondiale di Moto3per la stagione successiva. Non è stata, però, una grandissima esperienza. Per carità, tutto è importante nella vita e anche le pagine buie, ma lì gli occhi di Pecco s’erano spenti. Una volta mi disse che il suo sogno si stava trasformando nel suo incubo. Non sto a dire le ragioni, anche perché ormai è tutto alle spalle, ma fu una stagione veramente difficile, tanto che chiedi di firmarmi una liberatoria per fargli provare la Mahindra. Mi dissero che se fosse salito sulla Mahindra non avrebbe più corso in moto, invece eccoci qua.

In quello stesso periodo l’incontro con Valentino Rossi e l’Academy…

Me lo ricordo come se fosse ieri. Valentino, Uccio e Albi mi dissero che credevano molto nel talento di Pecco, ma che lo vedevano tremendamente triste e mi parlarono della VR46. Non ci abbiamo pensato su due volte. Fece ancora un anno in quello che nel frattempo era diventato il Team Sky, ma era già pronto il progetto Aspar con la Mahindra. Il resto è storia che conoscete tutti.

La prima volta che Pecco ha visto una moto… non ho mai visto una luce così negli occhi di un bambino.

Sì, il resto è noto. Quello che vorremmo sapere, invece, è come sta vivendo, da babbo, questi giorni che precedono Valencia?

Con una gioia speciale. Vedo mio figlio felice e lo vedo felice insieme alla sorella Carola e all’altro figlio Filippo, che non ama correre, ma conosce tutto delle gare in moto. Tutti insieme dentro lo stesso box, dentro la stessa storia, dentro lo stesso sogno. Per me non c’è altro da vincere: io sono felice, a prescindere da come andrà. Perché un padre che vede i figli felici è un padre felice all’ennesima potenza.

Nemmeno un po’ d’ansia?

Beh, mentirei se dicessi che adesso non ci sto facendo i conti più di quanto ce ne avessi fatti in passato, ma niente di negativo. Me la godo, me la godo di brutto. Anche guardarli da fuori, nella grande famiglia Ducati, che è fatta di persone straordinarie che lo hanno accolto e hanno ricreato il miglior ambiente per Pecco, è uno spettacolo vero. Per carità, un po’ d’ansia in più c’è, ma niente che non si sopporti, niente che non valga la gioia che provo. E’ tutto straordinario! Secondo me le corse in moto sono un tavolo con tre piedi: pilota, moto e ambiente e sta funzionando tutto al massimo, perché se anche una volta un piede non è saldissimo lo sono gli altri due.

 

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