“Dov’eri quando è morto Ayrton Senna? Prova a fare questa domanda a chiunque. Ciascuno ti risponderà descrivendoti un luogo, il momento preciso”. La frase è del 1996 e è di Lucio Dalla, ma l’ho incontrata tanti anni dopo, quando Giorgio Terruzzi l’ha usata come incipit del primo capitolo di Suite200, uno scritto intimo che racconta una vita (e pure la vita) attraverso la metafora di un’ultima notte. L’ultima notte di Ayrton Senna. Quella frase, figlia di una impressionante capacità di notare la verità dei dettagli sociali di Lucio Dalla, però, è a Marco Simoncelli che mi ha fatto pensare. No, non certo per un paragone che non esiste e che non starebbe in piedi. Ma semplicemente perché se al nome di Ayrton Senna sostituissimo quello del Sic il risultato resterebbe lo stesso: “Ciascuno ti risponderà descrivendoti un luogo, il momento preciso”.
Tanti probabilmente sbaglierebbero pure, ingannati dagli orari, visto che in quel maledetto giorno di ottobre di dieci anni fa si correva a Sepang e quindi con un orario differente rispetto a quello in cui la notizia della morte di Marco ci è entrata violentemente in casa. Numeri che non contano, davanti alle dimensioni di un ragazzo che muore facendo quello che aveva sognato, e risultati che non cambiano se quel ragazzo s’è chiamato Ayrton o Marco. Nemmeno se Ayrton aveva vinto tanto e Marco molto poco, nemmeno se uno era già leggenda e l’altro, forse, lo sarebbe diventato. Perché esiste una misura differente che non è figlia di quanto vinci, di quanto perdi, di cosa hai fatto e cosa non hai fatto, ma che è semplicemente figlia di altro. Un altro non ben definito.
In questi giorni di avvicinamento all’anniversario dell’ultima corsa del Sic s’è raccontata ancora una volta una storia, per mille volte, nonostante fosse nota e, purtroppo, decisamente breve. Una vita intera più breve, se ci fermiamo a pensarci, di quanto è stata lunga la carriera di Valentino Rossi nel motomondiale: Marco è vissuto per poco meno di 25 anni, Vale ha corso in moto per 26. Segno che la misura non la rende nemmeno la durata. E non si dica che a farlo è la morte, perché non c’entra proprio niente e perché la morte ha il sapore della gloria solo per quelli che la velocità l’hanno amata e la amano veramente, lasciando che quel demone ne guidasse la vita fin quasi ad anestetizzarne la paura. Se la misura fosse la morte, di Marco Simoncelli si ricorderebbero solo gli appassionati di corse e motorsport, invece tutti, proprio come per Senna, riescono a dirti dov’erano quando hanno saputo che quel ragazzo con quei capelli così assurdi aveva smesso di esserci.
C’entra poco anche la facile associazione di quelli che dicono che la morte di chi è famoso finisce per ricordarci che moriremo tutti e per trasformare una consapevolezza che, per quanto cinica e atroce, non possiamo non amare come parte della nostra stessa natura. E’ così che siamo programmati. Quella consapevolezza, semmai, serve a fissare il tempo, come se la morte o la paura che genera aiutasse a collocare: prima e dopo la morte del Sic, come un segno rosso nel calendario. Magari un segno importante nella storia personale di ognuno. Ma non è comunque una misura.
Non conta quanto hai vinto, non conta la tragedia, non conta la durata, non conta la morte e nemmeno la paura che genera e non conta neanche il tempo. Sono tanti dieci anni, eppure in questi giorni tantissimi, quasi tutti, oltre a saperti dire dove erano e cosa stavano facendo quel giorno, aggiungono una domanda quasi allibita: ma come dieci anni, così tanti? No, neppure il tempo è una misura. O, almeno, non lo è per tutti. Altrimenti non si spiegherebbe perché l’idea del Sic ci commuove ancora, per quale ragione a Coriano c’è sempre qualcuno a caccia delle tracce del 58, perché quel numero lo troviamo appiccicato nei luoghi più impensati, perché c’è gente che fa ore di fila nella calca della Misano estiva per sentir accendere una moto e perché oggi, dieci anni dopo, è lo steso babbo Paolo a sconvolgersi di quanto affetto ci sia ancora in giro verso il suo ragazzo.
Verrebbe da dire, allora, che la misura è quanto arrivi. Non in un punto geografico, in un gradino sociale o in un livello della competizione, ma nella centrale delle emozioni delle persone che incontri. E’ la misura dell’indimenticabilità, che magari come parola non esiste, ma come valore sì e ci mette d’accordo tutti. Nell’unica dimensione che conta veramente, perché tiene conto alla pari sia di chi è andato via che di chi resta.