Con una crescita galoppante negli ultimi giorni, Mario De Lillo ha superato i 150 mila follower su TikTok e i 100 mila su Instagram. Chi è? Ne abbiamo parlato qui, ma, per riassumere, è un trentacinquenne romano che sta diventando un influencer prendendo per il culo gli influencer. Nella manciata di secondi che divenendo virali (più di un milione di visualizzazioni su TikTok) lo hanno reso famoso, Rivoluziomario (così si chiama su Instagram) si riprende in casa e dice “Aò, ma che ne sapete voi che fate tanto i fighi, con le vostre cucine industrial e new wave, beccatevi ’sta cucina delle case popolari, tiè, arte povera, tiè”. E poi la coprotagonista: “Guarda mi nonna che nun si riesce ad allaccia’ la cerniera. Nun molla’, daje”.
De Lillo ama l’ironia fatta con la faccia seria, anche a costo di rischiare che qualcuno non capisca che sta scherzando. Appena parte l’intervista, applica subito questo principio.
Mario, ti abbiamo visto scatenato nelle story che hai girato in un locale all’aperto in occasione della vittoria dell’Italia contro l’Inghilterra. Ti sei ripreso dai festeggiamenti?
“In realtà ci sono andato solo perché ho fatto delle magliette con scritto “Nun molla’ - Arte povera” e volevo venderle. Sono andato in un luogo affollato a vedere la partita per questo motivo e ho fatto di tutto per averle prima della finale per attuare questa strategia di marketing spietata".
Lo avevamo sospettato, visto che mentre esultavi urlavi “comprateve ’ste cazzo de magliette”… Rimanendo per un attimo in tema di calcio, tifi anche per qualche squadra di club?
“Dopo Calciopoli mi sono allontanato, però quando ero bambino tifavo Milan. Ma solo perché era la squadra che vinceva di più”.
Com’è nata questa tua attività sui social?
“Io sono un ex attore, anche se in verità anche adesso posso dire di essere un attore. Io lavoravo in un supermercato e con i soldi messi da parte mi iscrissi a dei corsi di recitazione. Ho fatto teatro, ho fatto recitazione cinematografica. Stando dentro l’ambiente mi sono reso conto che per una serie di motivi quell’ambiente non faceva per me, ma che anch’io non facevo per quell’ambiente, perché anche le mie capacità non si sposavano troppo bene con quel mondo. L’eventuale talento è solo una parte di quello che devi fare per affermarti in quel mondo lì. Oltretutto a livello tecnico ci sono tantissime regole (fermarsi in un determinato punto, alzare la testa in un altro) e tutte quelle regole per come sono io andavano un po’ a bloccarmi. Fino a che non ho scoperto la possibilità di poggiare il telefono e premere Rec. La prima volta che ho premuto quel tasto ho capito che stavo facendo non dico quello per cui sono nato, ma una cosa che faceva per me. Per quanto anche i social abbiano delle regole, quella sensazione di libertà di poter dire quello che voglio a me ha cambiato la vita, a prescindere dai follower. Sono attore, regista, produttore, comparsa: che sia a beneficio di un pubblico di 5 o di 150 mila persone, per me è una cosa impagabile. E in questo senso voglio lanciare un messaggio: se avete motivo di credere di avere un talento, non pensate che necessariamente dovete andare a bussare alla porta di qualcuno, ma premete Rec e spaccate. Puntate sulla vostra individualità, perché quando riesci a distinguerti, hai vinto. Anche se ci sarà sempre qualcuno che dirà «ma chi è ’sto deficiente?»”.
Perché hai scelto questo stile?
“È un superpotere che ho scoperto di avere. Io sono una persona che ha vissuto tantissimi disagi. Non grandi tragedie, ma tantissimi piccoli disagi quotidiani. Ho delle difficoltà a socializzare, dal vivo sono molto più in difficoltà di quanto non appaia nei video, ho sempre avuto problemi a relazionarmi, ho 35 anni ma non ho un posto di lavoro fisso, non ho mai saputo rispondere alla domanda «cosa fai nella vita?», anche perché per me la domanda dovrebbe essere «chi sei?», non se hai o non hai un contratto a tempo indeterminato. Il superpotere che ho scoperto di avere è l’autoironia. Non faccio altro che tramutare tutti i miei piccoli disagi quotidiani in una storia simpatica. Questa è la mia capacità. Io con «arte povera» e «nun molla’» non faccio altro che raccontare tutte le cose che mi fanno paura in chiave comica. E in questo modo le esorcizzo, le sconfiggo”.
Paure come?
“Come la paura di non avere soldi, come il fatto che comunque è la mia compagna quella che nella coppia ha delle entrate fisse e delle certezze, una cosa che in Italia fa ancora molto scalpore e non è accettata, per quanto anch’io faccia la mia parte per il bilancio familiare. Però questa persona mi ha scelto e ha scelto di fare un figlio con me, quando non avevo nemmeno i follower che ho ora. Adesso bene o male la gente mi riconosce. Ma quando hai 35 anni, un figlio e prendi in mano il telefono con mille follower, la gente pensa che sei un pazzo”.
Ti aspettavi di arrivare a questo punto? E dove punti ad arrivare?
“La salita è infinita e nulla è mai stabile. Io le mie qualità le conosco. A volte per me uscire di casa e prendere il telefono è stato molto complicato. Mi è capitato che prima di registrare una story mi venisse da piangere, poi nel video esplodevo di simpatia e quando spegnevo mi sentivo di nuovo sperduto nel mondo. Poi però ho cominciato a colpire delle persone. E dentro di sé sai che se colpisci 100 persone poi puoi riuscire a colpirne anche 100 mila. Tutto parte da una visione, poi serve che accadano delle cose, come per esempio il fatto che qualcuno di molto seguito ti condivida. Le variabili sono infinite. Io sono diventato virale la prima volta con un contenuto pubblicato cinque anni fa, la prima storia con mia nonna. All’epoca ottenni cinque sorrisi. Dopo anni ho ripubblicato lo stesso contenuto su TikTok, tanto per, e ho fatto un milione. Lo stesso identico contenuto può valere cinque reazioni o un milione di reazioni. E questo è destabilizzante, perché il valore del creatore e del contenuto è sempre lo stesso, mentre i riscontri sono diametralmente opposti. È un attimo buttare il telefono e dire «sono un fallito, ma che sto facendo?». Poi però a volte può capitare che per X motivi quei riscontri arrivino. Ora mi fermano per strada e mi chiedono la foto, ma io sono sempre lo stesso che prendeva cinque «mi piace». E anche questo è destabilizzante. Io non ho un piano B. Poi se me lo dovrò inventare me lo inventerò, però io non sono un imprenditore che fa delle storie simpatiche. Io ci metto il sangue e me la rischio. Ho imparato che la linea che intercorre tra l’essere lo scemo del villaggio che fa le storie gridando per strada e l’essere un figo con cui la gente vuole farsi le foto è una linea sottilissima”.
Sei descritto come anti-influencer. Ti senti così? Ed è una cosa che può durare?
“Ciò che mi motiva a fare, oltre all’autoironia, sono proprio queste facce che appaiono continuamente e dicono «Ciao, vuoi guadagnare follower e diventare un influencer?». A me quando le vedo fanno un veleno tale che subito penso che devo farci il verso. Perché non è possibile che la gente segua questi qua e si fidi di queste facce e di queste figure palesemente costruite. Io mi chiamo «Rivoluziomario» perché più che i soldi io voglio veramente fare la rivoluzione. Io voglio creare una community così forte da riuscire ad andare contro questa roba qua. Però mi rendo conto che se e quando ci riuscirò, alla fine farò quello che fanno loro, per quanto stando dalla parte opposta. Quindi mi faccio molti esami di coscienza, ma so che se un giorno dovessi avere un comportamento ipocrita io a differenza loro farò una storia dicendo che sono stato ipocrita. Perché io posso dire quasi tutto. Io mi sono dato del fallito molte volte. Dico che chiedo l’elemosina ai follower. Io mi massacro da solo. Mentre gli altri vogliono far apparire la propria vita migliore di quella che è, io a volte la declasso, mi faccio proprio male. E al di là dei follower, il mio profilo ha tanta interazione, e l’aveva già quando avevo cinquemila follower. Se io sono arrivato a tante persone credo non sia solo perché faccio ridere: spero che sia arrivato il messaggio sottostante, quello riassunto in «arte povera»”.
C’è però anche il rischio tormentone no? Tu lo usi per sintetizzare il tuo messaggio, ma magari il grande pubblico può vederci solo un tormentone alla Zelig: quando ti mandano i video di risposta citano sempre e solo quello.
“Di sicuro molte persone hanno voglia di punti fermi e anche di ripetitività. Considera però che, nonostante la gente mi scrivesse ogni giorno di rifare una storia con mia nonna, da quella storia iniziale a quella nuova sono passati mesi. Io rifiuto ogni tipo di omologazione e quindi rifiuto anche di essere solo «arte povera», perché io sono Mario De Lillo. Però visto che «arte povera» tirava così tanto, non cavalcarlo sarebbe stato veramente un suicidio. Adesso lo sto cavalcando e cavalco anche il discorso nazionalpopolare. E se dei ragazzi vogliono fare un video in cui dicono «A Mario, arte povera» a me fa comunque piacere, anche perché, pur non vivendo in una casa fatiscente, io vivo comunque in una zona popolare. So che faticherò a continuare a fare questi numeri, so che perderò dei follower, so che c’è gente che vuole solo sentirmi dire «nun molla’», però so di non essere così legato a quel tormentone, perché io metto in scena tutta la mia vita con la massima passione ogni volta che premo Rec, e tante di quelle persone mi conoscono e mi seguono per quello e continueranno a stare con me. Io non sono «Non ce n’è Coviddi», io non mi esaurisco così. Io ho tanta roba da portare. Sicuramente finirà questo momento in cui cresco di cinquemila o più follower al giorno, ma confido comunque di continuare a crescere ancora, perché io ci metto il sangue e tutto me stesso. Io faccio quello che mi sento, i format mi sono usciti. Un giorno mi è uscito «arte povera» con mia nonna e ho fatto un milione. Un domani dirò qualcosa d’altro e magari diventerà un tormentone quello. Se non ce la farò, mi prenderò le mie responsabilità. Che devo fare? Io fluisco, vado, mi sento un fiume”.
In uno dei tuoi video più spiazzanti alla fine veniva fuori che il tuo sogno era fare il bidello. L’hai poi fatto davvero, il concorso?
“Sì, il concorso l’ho fatto veramente e ovviamente non mi hanno chiamato, perché lì è più difficile che vincere il superenalotto. Anche in quel caso facendoci la storia ho esorcizzato questa cosa: il voler sfondare sui social quando non si riesce nemmeno a diventare bidelli”.
Lo sketch a cui tieni di più?
“Per quanto «arte povera» non me lo tatuerei sul petto, di certo non lo rinnego, ed è un contenuto a cui tengo e terrò sempre, perché fa parte del gioco. A livello di costruzione direi però lo sketch del gratta e vinci, una storia lunga in cui la racconto come se avessi vinto un milione di euro e alla fine viene fuori che ho vinto 15 euro. Un contenuto che non diventerà mai virale, perché è una comicità per pochi, però so che chi ha riconosciuto quel contenuto ci ha veramente riso”.
Sei molto legato anche alla bandiera da pirata, giusto? Come mai?
“Tutto è cominciato in pieno lockdown, quando la gente metteva quelle cavolo di bandiere arcobaleno sui balconi con la scritta «andrà tutto bene». A me dava fastidio perché avvertivo una grande ipocrisia, con dichiarazioni di amore verso la patria e verso gli altri quando alla fine la gente appena può si prende a coltellate. Quindi io ho detto fanculo, stiamo morendo tutti, metto la Jolly Roger dei pirati con il teschio, tra l’altro in camera di mio figlio. Adesso che per certi versi sto davvero facendo la rivoluzione è una figata rivedere quella bandiera, anche se quando l’ho messa con 200-300 follower potevo sembrare un deficiente. Poi so che quella bandiera ha o può avere un significato un po’ profondo, ma io la uso per gioco in contrapposizione alla retorica dell’andrà tutto bene. La cosa coinvolge anche la mia compagna: quando l’ho conosciuta non sapevo se fidanzarmi con lei, ma quando ho saputo che aveva una casa di proprietà ho fatto subito le valige e ora sono qui da cinque anni. E ci ho pure messo la bandiera dei pirati. Un’altra donna me l’avrebbe fatta levare, invece lei ha detto che era figa. Tutto molto bello”.
Ironicamente, adesso per te non starà andando tutto bene, ma le cose cominciano a girare, no?
“Stanno arrivando delle proposte. Ora le sto valutando ma ho scoperto che c’è la possibilità di farne un lavoro, di questa roba qua. Adesso voglio monetizzare, perché me lo merito”.
Non corri il rischio di snaturarti?
“Io finora se qualcuno mi sponsorizzava non è che l’abbia mai nascosto, anzi. Ci facevo proprio la storia sopra, estremizzando: «Io sono qui perché me pagano, altrimenti col cazzo che ci starei». Finché faccio così io sono indistruttibile. Io anticipo il pensiero e il giudizio della gente presentandomi da subito come marchettaro, quando magari in verità neanche mi avevano pagato. Però se mai arriverò al punto di farmi mettere sotto contratto da qualcuno vorrei pormi in maniera diversa, come esempio di come si possa partire da zero, senza taggare nessuno, senza scrivere a nessuno e arrivare a fare di questa roba qua un lavoro. A quel punto so che qualcuno mi odierà, qualcuno mi odia già ora e mi vorrebbe veder morire mentre grido «arte povera». Probabilmente perderò qualche follower che vuole necessariamente vedermi in difficoltà, ma spero di guadagnarne altri che possano vedere in me un ragazzo che da solo ha costruito qualcosa. Penso ai rapper che vengono insultati e si prendono dei venduti perché firmano un contratto. Ma secondo questa gente, questi cosa dovrebbero fare? Continuare a produrre contenuti senza percepire denaro? È pazzia. Se dovessi riuscire a tramutare in lavoro quello che faccio, lo farò. Lo dico subito. Con ironia, ma lo farò assolutamente. Poi a me non interessa fare soldi per spenderli, ma ho un figlio piccolo e vorrei avere una qualche entrata regolare. Non è che io sia tirchio: di più. E ho un feticismo quasi sessuale per la moneta da due euro. Vorrei accumularne così tante da potermici tuffare dentro, come Paperone. Ma mi basterebbe arrivare a 350 euro al mese per dare una mano alla mia compagna, mangiarmi la fettina, la carotina e poter continuare a fare le storielle con il cellulare. Poi se non ce la farò come sempre me la caverò in qualche modo, però deve essere chiaro che quello che sto facendo è un lavoro, quasi più probante di quando faccio i traslochi, al di là della fatica fisica. Io le storie le rifaccio anche cento volte finché non mi arriva la vibrazione perfetta. E se qualcuno non ci crede provi a chiederlo alla mia compagna: non mi sopporta più”.
Che idea ti sei fatto riguardo al tuo pubblico?
“Io ricevo anche messaggi da parte di persone adulte che comunque mi dicono cose anche molto belle, però soprattutto attraverso «arte povera» ho colpito un target giovane. I miei coetanei vanno contro alle nuove generazioni dicendo che noi eravamo meglio. Invece per me molti giovani sono stati un’ispirazione, per quello che riescono a fare per esempio su Twitch. Ci sono dei fenomeni, altro che noi a 15-20 anni. Quindi io sono contento di poter comunicare con i giovani, perché io mi sento più vicino a loro che non ai miei coetanei, anche se dal punto di vista tecnologico sono un boomer. Poi è chiaro che so che ci sono tanti giovani tremendi che fanno casino, lo so, ma in generale li apprezzo molto”.
A proposito di giovani, non credi che provando a seguire il tuo e altri esempi ci sia il rischio che qualcuno cerchi una via facile nella vita che in realtà non esiste o comunque è molto improbabile da realizzare? In sostanza, non c’è già troppa gente che prova senza particolare costrutto a fare l’instagrammer o il tiktoker?
“Ci devo ancora pensare bene, perché ancora non sono così influente da dare consigli del genere. Però nel momento in cui dovessi riuscire ad avere un seguito veramente potente specificherei che questa è la strada da provare a seguire per chi ha delle doti riconosciute da altri ma crede di non potercela fare da solo. Ovvio che non dirò di smettere di studiare o di lavorare per mettersi a fare le story. Poi ognuno deve capirlo con la propria testa. Io ci sono arrivato da solo. Poi il messaggio «nun molla’» va bene per tutto e per tutti, anche per chi si vuole laureare: anche la laurea può essere un modo per esprimere sé stessi. Bisogna prendersi dei rischi. Io stesso sono a grande rischio, perché non so se ce la farò. Mi riconosco nella prima parte della poesia di Bukowski che dice «Se hai intenzione di tentare, fallo fino in fondo». Senza finire in prigione, però”.
Non si finirà in prigione (forse), ma in quest’epoca fare il comico non è facile. Tra politicamente corretto, vittimisti e suscettibili in servizio permanente sui social pronti a chiedere la testa del malcapitato di turno. Te ne sei accorto?
“Sì, è un percorso a ostacoli. Però io non mi occupo di questioni politiche e penso che non lo farò mai, così come non credo mi sia mai capitato e comunque non mi interessa prendere di mira qualche minoranza. Ogni tanto scherzo sul fatto che mi piacciono le donne particolarmente formose e vorrei poterlo fare di più, andandoci un po’ più pesante, però al giorno d’oggi tocca stare un po’ attenti da questo punto di vista: non voglio che qualcuno si senta offeso. Per quel che riguarda il genere di comicità che faccio, però, non mi sento troppo limitato. Almeno per ora”.