A Lloret de Mar, la Riccione della Spagna, ci sono stato a 16 anni, ma io ero lì per un torneo di calcio. A Lloret de Mar Niccolò Ciatti di anni ne aveva 21 quando è morto, la notte tra l’11 e il 12 agosto 2017. Preso a calci da un ceceno che è stato arrestato in Spagna, poi rilasciato, poi trovato in Germania, estradato in Italia e adesso liberato per uno di quei cavilli del cazzo. Penso a Niccolò da uqattro giorni, da quando ho letto l’intervista al padre sul Corriere della Sera.
Luigi Ciatti prima di essere intervistato stava scrivendo una lettera. A Mattarella. Come è possibile che per un difetto di forma l’assassino di suo figlio sia stato rimesso in libertà? Che giustizia è quella che permette a un omicida di tornare in Cecenia o fuggire? Ci sono le immagini delle telecamere. Niccolò era in vacanza con i suoi amici. In discoteca trova il ragazzo ceceno e un suo amico. Già altre volte questi due erano stati allontanati ma gli avevano sempre permesso di tornare. Niccolò viene ammazzato di botte. Uno lo tiene, l’altro lo devasta. L’ultimo calcio alla tempia lo uccide. Ci sono le immagini. È tutto chiaro. Sono passati quattro anni. Quattro fottuti anni. Ci sono le immagini. Perché c’è bisogno di aspettare così tanto per avere giustizia?
Nell’intervista al padre c’è un passaggio potente e pesante. Racconta che la vita sua e di sua moglie è diventata un cammino di andata e ritorno dal cimitero di Scandicci. Che una volta a casa suo figlio lo vede continuamente. Lo vede entrare nella sua camera. Giocare alla Play. Parlare al telefono con i suoi amici. Stare con la sua fidanzata. Una volta si è pure messo le sue scarpe. Non c’è gesto più intimo, forse. “Ho avuto la sensazione di camminare con lui. Di volare, quasi”. Poi, ha aggiunto, è tornata la disperazione di sempre.
La sorella di Niccolò studia giurisprudenza. Chissà se lei una risposta a un’ingiustizia permessa dalla giustizia (il ceceno è fuori perché l’ordinanza dell’arresto è stata emessa prima che tornasse dalla Germania) riesce a darsela. Io faccio fatica. Il 18 gennaio il processo verrà celebrato anche se il ceceno non sarà presente. Monicelli diceva: “Io sono superficiale perché spesso, se smetti di esserlo, puoi giustificare qualsiasi atteggiamento, anche il più ignobile”. Non capisco infatti nemmeno l’avvocato che ha difeso il ceceno, tale Francesco Gianzi. Sostiene che il suo assistito ha già scontato diversi anni di carcere preventivo in Spagna, che il processo doveva essere celebrato lì, parla di rispetto della famiglia ma che fino a prova contraria il ceceno è innocente. Non capisco nemmeno i giudici della terza sezione di assise di Roma che hanno permesso la scarcerazione, la stessa che a ottobre bocciò il processo agli ufficiali dei servizi egiziani accusati del rapimento e delle torture e della morte di Giulio Regeni. Ok, è il loro lavoro. Ma voglio continuare a non capire. Voglio continuare a pensare che le regole contano fino a un certo punto. Dopodiché c’è l’umanità. L’umanità, crostosanto. La mancanza di umanità mi fa ricordare di Gaber, del suo “non mi sento italiano” (ma per fortuna o purtroppo lo sono).
Ho pensato a Niccolò anche quando ho ascoltato il discorso di Mattarella. Il ministro della Giustizia aveva chiamato i genitori qualche ora prima ma il Presidente? Nessuna parola sul suo caso. Nessuna parola sulla giustizia italiana, né su altri casi simili, né sul coordinamento della giustizia tra i vari Paesi della Ue. Molte parole, tutte retoriche, sui giovani. “Prendetevi il futuro”. Ma per favore. Niccolò aveva 21 anni. Era a Lloret de Mar a divertirsi. Come tanti prima di lui. Non si prenderà nessun futuro, presidente. Nessuno.