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Milano riparte ma… dove va, se la grande borghesia ormai non ce l’ha?

  • di Matteo Cassol Matteo Cassol

13 giugno 2021

Milano riparte ma… dove va, se la grande borghesia ormai non ce l’ha?
Il panico da pandemia è alle spalle (si spera), ma Inter e Milan arrancano dal punto di vista finanziario, il Corriere della Sera traballa, nessuno aspira a fare il sindaco e non si trovano più i mecenati di un tempo (se chiedi un sostegno ti rispondono “ma è detraibile?”): la città può farcela a trainare il Paese anche se alcuni dei suoi simboli principali sono in difficoltà e anche se a comandare sono le grandi banche e i fondi internazionali?

di Matteo Cassol Matteo Cassol

Giugno 2021, Milano riparte. Come nel giugno 2020? Si spera di no, perché poi si ritornò alla casella iniziale del gioco del lockdown. Ripartenza sì, ma non troppo. Qualcosa rimane in sospeso, come evidenzia un’indagine del Foglio: “Sensazioni, umori, piccoli dubbi – scrive Maurizio Crippa – su quello che potrebbe accadere, su qualche mancanza avvertita. L’impressione che, per ripartire a gran velocità come tutti chiedono, manchi un po’ di convinzione. Manchi la forza ottimista di quella borghesia milanese, gran borghesia, che a Milano ha sempre fatto la differenza”. A traballare sono anche alcuni dei simboli principali della città.

Il calcio

Oltre a essere sotto controllo straniero, sia i rossoneri che i nerazzurri (a quanto pare in questo momento in particolare loro) sono in difficoltà finanziarie: “Il Diavolo – ricorda Crippa – è finito da tempo nelle mani dei suoi creditori, e nessuno ha obiettato. Non fanno neanche male, ma si sono fatti scivolare dalle dita un asset come Donnarumma, e nessuno ha obiettato. Ma soprattutto l’Inter, col suo cappio di debiti cinesi. Carlo Cottarelli, economista esperto di risparmi virtuosi oltre che gran tifoso, cerca da mesi interisti milanesi ricchi e generosi disposti a rischiare nel progetto di un azionariato popolare, stile Bayern, per rilevare o almeno entrare nella società. Non che a Milano una simile platea di investitori sia introvabile, eppure la coraggiosa e innovativa idea non trova anime forti all’altezza: tutti nascosti sottocoperta”.
Quello del calcio però attualmente non sembra un business redditizio, anzi: “Ma qui si parla di un entusiasmo, della voglia di provare una strada nuova che sembra non affascinare più l’innovativa Milano. E quel che era una volta identità ora è tv spezzatino proiettata su uno stadio che ancora nessuno sa se resterà o se verrà tirato giù. Malinconia”.

Il sindaco e la grande borghesia

“Il fatto che il centrodestra di Milano, tradizionalmente un pezzo importante del mondo imprenditoriale e delle professioni, in tutti questi mesi non sia riuscito a individuare un candidato della società civile, un manager, un industriale disposto a sfidare Beppe Sala lascia sbalorditi”. A un certo punto si era parlato di Gabriele Albertini: “Bravissimo e molto amato, ma sarebbe stato pur sempre un uomo di vent’anni fa. Nient’altro è germogliato, nel frattempo? Nessuno con l’ambizione o le idee per rischiare? Beppe Sala che gioca un derby da solo, nella città dei derby, sembra un quadro di Magritte”. È ben vero che Sala appare difficilmente battibile e che fare il sindaco è un lavoro ingrato e, in proporzione ai bilanci gestiti, sottopagato, ma il segnale è indicativo di “un lungo tramonto moderato”.
Significativo anche che al momento dell’emergenza oltre a provare a richiamare Albertini si sia fatto ricorso a Letizia Moratti e a Guido Bertolaso, altri due “protagonisti di un berlusconismo del passato”. La diagnosi di Crippa è che “non esiste al momento una borghesia di centrodestra interessata a prendersi la città. Un po’ perché va bene così. Un po’ perché il blocco sociale-politico stabilmente al comando è quello della «oligarchia Expo»”.
Oltre al candidato, sembrano mancare anche le idee: “La borghesia illuminata del centrodestra non parla più. Ci sono iniziative private che nascono da un’imprenditoria o dall’associazionismo ma coltivano progetti mirati, spesso eccellenti ma non esprimono parole d’ordine come quelle che hanno contrassegnato i decenni scorsi”. Come l’Italia, anche Milano sembra essere un posto per (grandi) vecchi: “Carismi come quelli di Nanni Bazoli, di Giuseppe Guzzetti, di Silvio Berlusconi o Leopoldo Pirelli non si improvvisano: il buco di una generazione c’è e rimane”.

Il Corriere della Sera

Della situazione del Corriere della Sera non si parla ufficialmente (quasi) mai, ma se ne parla tantissimo negli ambienti politico-finanziari milanesi: “La disputa, gustosa come un legal thriller, tra Rcs-Urbano Cairo e il fondo Blackstone – in cui ha un ruolo chiave un altro dei grandi player milanesi, lo studio BonelliErede – potrebbe risolversi bene, o non malissimo, per Cairo. Ma se le cose arrivassero a una strettoia finanziaria decisiva, ci sarebbe davvero lo spazio per un nuovo patto di sindacato in grado di garantire la stabilità del maggiore quotidiano nazionale? […] Gli scenari sono molto cambiati e più incerti. […] Un salotto in grado di farsi tavolo da gioco per le grandi ricchezze industriali non c’è più. Perché non esistono più le grandi famiglie. In fondo, Leonardo Del Vecchio non ha un’eredità da tramandare, i giovani Rotelli della Sanità hanno al momento altre legittime ambizioni”.
Possibile che non ci sia qualcuno a cui interessi controllare il Corriere della Sera? “Fa strano dirlo, in una città che ancora dieci anni guardava alla Fortezza Bastiani di via Solferino come a un simbolo d’influenza e di equilibri strategici. Oggi il Corriere ha quasi abdicato al suo ruolo di tribuna politica nazionale: perché non c’è più una borghesia interessata ad avere un giornale-timone nazionale”.
Ma allora chi comanda a Milano? “I veri stakeholder di Milano sono le grandi banche, le due o tre, tutte con il cervello al nord. I grandi collettori di capitali. I fondi internazionali, che confermano l’interesse per «Milano, Italia»”.

I mecenati

Non c’è più nemmeno quella “progettualità filantropica che un tempo era legata a famiglie, enti, personalità particolari che oggi non ci sono più”. Per Filippo Petrolati, direttore della Fondazione di Comunità Milano, “il mecenatismo non è più sostenibile, oltre certe misure. Se oggi chiedi l’aiuto per un progetto a un giovane manager, alla sua azienda, la prima risposta è: «Ma è detraibile?»”.
Nella città senza più grandi mecenati e senza più grandi progetti collettivi e politici nell’anno del lockdown si è comunque messo in evidenza un approccio al welfare sociale nuovo: è lo stesso Petrolati ha sottolineare che nel 2020 sono stati raccolti 28 milioni da 12 mila donatori per assistere le persone in difficoltà durante la pandemia: “È un risultato che dice quanta forza e radicamento sociale abbia la filantropia in questa città”.

Come ripartire, allora?

I miliardi europei del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e – coff coff – resilienza) non si fermeranno tutti sotto la Madonnina, ma da Milano transiteranno. Per Crippa “un anno fa, di questi tempi, era tutto un riflettere, via Zoom, su come sarebbe cambiata la città, la vita. Non lo sa ancora nessuno. Ma le vere grandi idee, vincenti perché di fatto sono le idee di tutto il mondo sono in sostanza due: il green e un nuovo modello di welfare di comunità”. Di mezzo c’è stato il Covid, ma “il modello di ripartenza è un po’ l’eterna riproposizione dell’identico: le periferie (che non sono cambiate poi troppo), il volano immobiliare (gli scali ferroviari, progetto in cantiere dai tempi di Pisapia), le opere olimpiche. C’era già tutto cinque anni fa, e non tutto può essere meno traffico e più aree pedonali: il progetto per trasformare quella specie di ottovolante intasato che è piazzale Loreto in una sorta di Darsena 2.0 senza acqua fa fatica ad accreditarsi nella testa dei milanesi come un nuovo bel sogno. Al problema di rendere di nuovo attrattiva la città, soprattutto per i giovani, stanno offrendo maggior contributo i progetti immobiliari che puntano sul “build to rent”, i micro affitti in stabili con servizi di nuova generazione (dalla wi-fi al car sharing condominiale) abbordabili da studenti e giovani al primo lavoro, e che immaginano un città fatta di servizi più che di nuda “proprietà”. Nella stessa direzione vanno l’housing sociale e quello studentesco (anche qui, molti gli investimenti stranieri), mentre i sogni immobiliari da super skyline sembrano già il passato di una grande stagione”.
L’architetto e urbanista Stefano Boeri guarda con fiducia a “una reattività sociale – penso alle piattaforme informative giovanili, alle realtà di quartiere che sono nate – che potrebbe generare nel futuro quell’entusiasmo mancante di cui dicevamo. Ovvio, non sono queste le grandi famiglie della borghesia milanese capaci di diventare leadership, ma Milano è in una situazione di grande apertura: mi impressiona l’interesse con cui siamo seguiti dal resto del mondo. Il modello, più che da ricostruire, mi sembra la grande disponibilità al cambiamento”.
Una Milano che guarda lontano dunque esiste, “ma passa più per i progetti di settori privati, dall’immobiliare alla rigenerazione industriale pronta ad agganciarsi alla rivoluzione green a guida del ministro Cingolani, di stakeholder come A2A (dieci miliardi di investimenti sul territorio nei prossimi anni)”. Perciò secondo Crippa “niente di tutto questo sembra alimentare un «vento di Milano» (un tempo si diceva «del nord») capace di indicare la strada a tutti”.

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