Mentre la politica, i media e gli influencer di varia natura si accapigliano sul Ddl Zan, la vita di tutti i giorni scorre come sempre, senza tenere conto dei temi trend topic, dei follower e delle logiche dei palazzi romani. Così può capitare che, dopo anni di studio e sacrifici, il proprio sogno possa sfumare soltanto per colpa del pregiudizio che ancora si annida là dove invece dovrebbe regnare soltanto la competenza e la giustizia “uguale per tutti”. È il caso della 32enne Jackie Ferrè (all'anagrafe Diego Peluso), che dopo aver avviato un delicato percorso di transizione per diventare donna, si era laureata in Legge a Napoli a pieni voti e aveva iniziato il tirocinio per diventare magistrato. Sarebbe stata la prima transessuale in Italia a riuscirci.
Ma è proprio fra le aule di consiglio e tra i corridoi dei tribunali che si accorge di un ultimo ostacolo ben più difficile da superare di qualsiasi libro di diritto. «Un giorno un giudice, per di più donna, davanti a noi tirocinanti disse: “Certo, ma non prendiamoci in giro, perché avere un figlio gay è una disgrazia” ricorda ancora adesso con stupore. E non sarà un caso isolato. Tanto che, un consigliere togato di lungo corso le confesserà apertamente: «Cercherò di aiutarti, purtroppo però l’andazzo è questo e per te non sarà per niente facile». Con il sopraggiungere della pandemia e anche di alcuni problemi familiari, Jackie decide così di accantonare per un attimo la strada impervia della magistratura e provare quella apparentemente più semplice dell’avvocatura. D’altronde, pensa, il curriculum è a suo favore. E infatti le arrivano numerose proposte, solo che al momento del colloquio si accorge che qualcosa ancora non va. «Appena mi vedevano di persona si trasformava in un interrogatorio per cercare di mettermi in difficoltà, per farmi fuori» ci spiega. Il motivo? I titolari di questi studi legali glielo ha chiarito senza giri di parole. Chi con dispiacere: «Sei brava, vorrei tenerti, però quando arrivano i clienti devo nasconderti». Chi con una buona dose di cinismo: «Anch’io sono gay, ci ho messo anni a farmi accettare e purtroppo non voglio tornare indietro».
Ora Jackie non solo è disoccupata, ma anche disillusa verso le battaglie sui diritti: «Unioni civili, Ddl Zan, tutto utile, ma senza lavoro non hai dignità». E ha concluso amaramente: «Questo è un paese nel quale se sei trans vai bene solo se ti prostituisci. Se invece vuoi avere accesso a tutto il resto vieni discriminato. È una questione culturale e non c’è legge che tenga. Io ho già lottato per diventare quel che volevo, però non posso lottare per sempre. Anche perché la vita è una sola».
Jackie, due anni fa hai raccontato con soddisfazione, oltre al tuo percorso di transizione, anche quello professionale che avrebbe potuto portarti a essere la prima transessuale magistrato. Cosa è andato storto?
Il desiderio di diventare magistrato non si è fermato, ma ho dovuto metterlo da parte. È come se un mio grande amore fosse morto. Mi sono trovata in un momento della mia vita con le spalle al muro e non ho più potuto permettermi di rischiare. Ho capito che c’erano troppi ostacoli da superare e non ce l’avrei fatta, per cui il bivio è stato tra il finire in mezzo a una strada e cambiare.
Di quali ostacoli parli?
Già durante la laurea mi ero accorta che per i professori non ero come tutti gli altri, però ero decisa a raggiungere i miei obiettivi, mi sono impegnata al massimo e li ho superati. Il peggio è iniziato dopo, quando pensavo che fosse in realtà tutto più semplice. Mi sono state sbattute in faccia molte porte e spiegandomi chiaramente i motivi, che non erano certo legati alle competenze.
Per quattro anni hai fatto il tirocinio da magistrato a Napoli, i problemi sono già iniziati in quel periodo?
Sì, quando sono entrata in tribunale ho capito che il problema era alla base del modo di pensare diffuso in quegli ambienti. Paradossalmente mi sono sentita molto più accettata dagli imputati che dai colleghi. Gli imputati non erano per nulla stupiti dall’aspetto estetico, mentre invece era evidente negli occhi degli avvocati, dei giudici e dei pubblici ministeri. Quel mondo purtroppo è ancora particolarmente omofobo, da lì bisognerebbe partire per cambiare le cose. Anche perché amministrano la giustizia, che dovrebbe essere uguale per tutti e se hai dei pregiudizi non puoi essere imparziale. Invece in chi si affidava a me per farsi difendere, spesso tra le fasce più deboli della popolazione, c’era sicuramente più umanità.
Fammi qualche esempio di discriminazioni che hai subito.
Ho assistito a episodi bruttissimi. Per esempio, quando ero tirocinante c’erano tanti processi con imputati trans e omosessuali e ricordo bene i commenti dei colleghi nelle camere di consiglio, erano davvero aberranti. Ci sono stata male, perché se fossi stata io imputata non mi sarei sentita tutelata. Un episodio su tutti mi ha fatto decidere di accantonare quella strada. Un giorno la presidente del collegio, una donna, disse davanti a noi tirocinanti: «Ragazzi, non ci prendiamo in giro, avere un figlio gay è una disgrazia». Gli altri si girarono verso di me, un’umiliazione atroce. Eppure, poi in udienza fingeva di essere imparziale.
Non hai pensato di continuare a lottare, come avevi fatto fino ad allora?
Ci ho provato. Ho chiesto anche aiuto a un consigliere togato di grande esperienza, che però mi disse: «Cercherò di darti una mano, ma non aspettarti di cambiare le cose. Purtroppo, l’ambiente è questo e l’immagine è tutto». A quel punto, con l’inizio della pandemia e alcuni problemi familiari, ho deciso di provare almeno la carriera come avvocato.
Ma anche su questa strada hai trovato diverse resistenze. Spiegaci quali.
Visto il mio curriculum, gli studi legali mi chiamavano, solo che al primo colloquio di persona questo si trasformava in un interrogatorio. In pratica cercavano un modo per farmi fuori. Siccome ero preparata, quando superavo tutti gli step e anche qualche tranello, mi dicevano sconsolati “la richiameremo”… e poi non richiamavano mai. Ma altri, invece, sono stati molto più espliciti.
Come si giustificavano?
Cinque o sei studi legali mi hanno richiamata, ma tutti erano in grande difficoltà nell’accettare quella che sono. Uno con estremo candore mi disse: «Mi spiace tantissimo dirti di no, ma ho una clientela particolare che si basa sulla fiducia, l’imputato ripone tutto nelle mani di un avvocato di cui ti devi fidare». Come se di un transessuale non ci si potesse fidare. Un altro, invece mi disse chiaramente: «Sei brava, posso tenerti in studio, però quando arrivano i clienti ti devo nascondere». Lo disse con rammarico, ma rimasi a bocca aperta. Oppure, un altro della provincia di Napoli e che lui stesso è omosessuale dichiarato, mi spiegò che ci aveva messo tanto per affermarsi e non voleva ricominciare da capo con me e aggiunse questa frase che non scorderò mai: «Nella vita devi scegliere se fare il Grande Fratello o l’avvocato”. Questi continui episodi, uniti ai problemi familiari e alla pandemia, mi hanno portato a non scegliere né l’uno né l’altro. E oggi sono disoccupata.
Sei più delusa o arrabbiata?
Allora ero più debole, ora riesco a farmi scivolare tutto addosso. Infatti, non sono pentita di essermi laureata e di aver provato a inseguire il mio sogno. Anzi, ci credo ancora. Solo che a chi vive la mia stessa condizione direi che se vuole laurearsi e studiare lo deve fare per sé, non per sperare di trovare lavoro. La conoscenza è importante prima di tutto per noi stessi.
Quindi per un transessuale in Italia credi non ci sia la possibilità di avere accesso al mondo del lavoro come per tutti gli altri?
Questo è un paese in cui le persone amano prendersi in giro, ci sono delle enormi ipocrisie. Se sei trans e ti prostituisci vai bene, se invece provi a inserirti in un contesto normale cominciano i grossi problemi. Ho tante amiche che hanno ricevuto dei "no" sul lavoro e hanno intrapreso la strada della prostituzione e come loro clienti si sono ritrovate gli stessi che le avevano sbattuto la porta in faccia. Da prostitute andiamo bene, anche per pagarci, per tutto il resto no. Per questo tante trans finiscono in brutti giri e poi fanno fatica ad uscirne.
Siamo in un periodo in cui si parla tanto di diritti civili, tiene banco l’approvazione del Ddl Zan e, oltre ad associazioni e attivisti, anche tanti personaggi si stanno spendendo in questa direzione. Tu come vivi questo dibattito pubblico?
Forse quando ho intrapreso il mio percorso di transizione, poter contare sul Ddl Zan sarebbe stato utile. Ma come le unioni civili, tutto utile ma niente di fondamentale. Sono dei passi avanti, solo che se non cambia la mentalità della gente non cambierà mai davvero niente. Come la restituisci la dignità alle persone se non possono avere un lavoro? Non voglio sminuire certe battaglie, però io vorrei solo essere libera di fare il mestiere per il quale ho studiato, senza sentirmi dire che non possono assumermi perché sono “un po’ così…” e camminare per strada senza essere insultata. È una questione culturale e non c’è Ddl Zan che tenga.
Come vedi il tuo futuro?
Non so, perché adesso non sto vivendo, sto sopravvivendo. Lo studio mi ha aiutata, mi ha fatto diventare quello che sono e questo non potrà mai togliermelo nessuno, ma sono davvero stanca. Non posso fare la paladina dei gay per tutta la vita. Ho combattuto in casa, nella mia comunità, a scuola e sul lavoro per diventare quella che volevo, però non si può lottare per sempre. Anche perché di vita ne abbiamo una sola.