Paolo Martin, 79 anni, ha raccolto una lunga serie di bozzetti a Venezia e li ha esposti all’interno di un palazzo che affaccia sul Canal Grande. Appesi sui muri con delle catene ci sono, tra gli altri lavori, la Ferrari F1 Sigma, una mezza dozzina di yatch, la Rolls Royce Camargue, la Moto Guzzi 750 S e decine di progetti mai realizzati, proposte rimaste sui fogli. Come a dire che a lui, una volta raccontata la sua idea, importava poco del resto: io la farei così, in altro modo non riuscirei a concepirla. Idee che sono come figli, ricordi, opinioni frutto di un ragionamento. I bozzetti esposti sono sistemati quasi in ordine sparso e occupano tutte le pareti ma c'è spazio: l'androne, a parte per una bicicletta in fondo alla sala, è praticamente vuoto.
"Se lei va a scuola di ballo ma non sa ballare fa solo dei gesti"
I suoi lavori, tutti diversi, sono moltissimi, tuttavia la mostra è per poche persone. Ad invitarci in questo piccolo tempio è stato Alessandro Sammartini: architetto e appassionatissimo, sa che Martin è uno dei pochi maestri del design italiano. Al telefono, mentre ci dà appuntamento, parla dei lavori straordinari in esposizione e della completa riluttanza di Paolo nei confronti del compromesso. Dice che abitare la personalità di un genio è un’esperienza in grado di cambiarti.
Ad accoglierci assieme ad Alessandro troviamo Paolo, sua moglie, Tiziana Collazuol - che assieme ad Alessandro ha organizzato l’installazione - e qualche ospite. Gli altri fortunatamente devono ancora arrivare, così riusciamo a ricavarci quindici minuti di intimità con lui. Basta un attimo a capire che se Paolo Martin ha fatto una mostra a Venezia incentrata sui mezzi a motore non è perché non sa come muoversi, è perché fa come gli pare. Anche se, si legge nell'invito, il ferro di prua della gondola l’ha sempre affascinato: "con poche linee riassume la topografia di questa città magica". Ed è vero.
“Io non sono un designer, sono un creativo”, dice subito Martin. Gli chiediamo come affronta i compromessi con cui ogni designer - anzi, creativo - deve fare i conti: “Ci sono le attitudini, se lei è portato per la musica è inutile che vada a fare il meccanico. Queste attitudini vanno conservate o amplificate, poi lei farà le sue scelte. Io avevo il diploma di perito tecnico ma non so neanche dove sia finito. Ho deciso di non andare più a scuola e mi sono scelto i miei maestri, anche sfacciatamente. Ricordo quando incontrai Bertone, lui arrivò con la Miura e gli dissi ‘Lei è l’Ingegner Bertone?’. Che domanda stupida. Ma quello era un venerdì e il lunedì successivo mi assunse”.
Poi continua, sempre diretto: “Per un ragazzo andare a scuola di design non serve a niente. Si sentirà rassicurato dalle sue competenze trovandosi però con nulla in mano. Se lei va a scuola di ballo ma non sa ballare fa solo dei gesti. Quando nasciamo siamo tutti diversi, il giorno dopo cominciamo a unificarci con un numero, un nome, le parole. Fino alla tomba abbiamo un numero. Io so quando sono nato, ma non so quando mi fermerò. E tutti questi giorni li uso a mio piacimento, se decido di non far niente è perché l’ho deciso io. Non è che mi dicono ‘domani è festa’. Festa di che? In Italia siamo il paese delle feste, dei Santi e delle Madonne. Ma sono dei freni, come si fa a non essere creativi a natale?”.
Il mondo che gli è attorno viene dopo: “Io sono io, non mi divido. Odio i lavori di gruppo, per me non ha senso. Si immagini l’opera di un artista, un dipinto: uno fa il cavallo, l’altro i fiorellini, un altro ancora le piante. Viene fuori una macedonia. Le opere rimaste nella storia sono fatte da una persona soltanto. Giugiaro, Michelotti, Gandini: non sono mai andati a scuola, non hanno mai lavorato con cinquanta persone. Oggi per fare una macchina ci mettono mesi, una volta era diverso”.
Giorgetto Giugiaro ha detto che la bellezza è matematica. Martin, in un certo senso, è d’accordo con lui: “Per me la bellezza è una questione di proporzioni, e a ben vedere è più o meno è la stessa cosa. Parlando di macchine, Michelotti mi diceva che dovevano essere belle da sporche. Senza luci ad ingannare, solo la massa. Se lei guarda la nuova 500 L, sporca e con la coda sembra una mucca. La vendono perché serve, ma questo non vuol dire che sia bella. Per me un oggetto deve dare emozione, quando tu giri gli occhi lo devi vedere anche senza guardarlo. Il tuo cervello se ne accorge, registra. E ti dà emozione, quindi lo vedi subito. Bisogna abituarsi a vedere tutto e niente. Serve immedesimarsi. Ho passato ore a guardare le Nuraghe, in Sardegna, immaginando gli uomini di tremila anni fa a costruirle".
Paolo Martin si siede a riposare. Sono arrivati altri giornalisti, amici, appassionati d’arte. E Tiziana Collazuol ci racconta, in una stanza in cui ci sono un elmo, il modello di una Bugatti EB110 ed il progetto di una casa ecosostenibile del secolo scorso quello che Paolo Martin non ha voluto dire: “Tutti gli oggetti che sono qui, anche questa casetta, sono costruiti da lui. E non è scontato che un designer sappia anche fare fisicamente le cose. Lui dice sempre che non fa solo le linee, visualizza gli oggetti finiti e devono uscire così. Ho un bell'aneddoto su questo: nel suo studio, a Torino, c’è una Guzzi, non ricordo con esattezza il modello. Quando il responsabile del design venne a vederla gli fece i complimenti e una critica, perché la sella era un po’ rigida. Non si era nemmeno accorto che era fatta interamente in legno da Paolo”.
Quando Martin torna a parlare, inevitabilmente sposta il discorso sul mondo dell’automobile. Un mondo che, racconta, non ha più estro, è inquinato, digitalizzato: “Ha tutto poco senso, oggi vendono auto da 1.000 cavalli con il codice da 50 Km/h. O vetture che pesano tremila chili, tra un po’ ci vuole la patente C. E poi parlano di clima: si rendono conto dell’acqua che ci vuole per un’automobile così? Ci vuole un fiume per farla e uno per demolirla. Quando mettevano la 600 nel forno toglievano le gomme e restava un po’ di ghisa, oggi è un disastro”.
Poi parla della Ferrari Modulo, che ha una stanza dedicata in fondo alla sala, e lo fa orgoglioso e divertito: “Quella macchina è stata ostinazione. Otto metri cubi di polistirolo, mi hanno anche minacciato accusandomi di aver sfruttato l'azienda per i miei capricci, perché l'ho costruita da solo, ad agosto, mentre tutti erano in ferie. Ad un certo punto Pininfarina chiamò Giò Ponti a rinnegare la Modulo perché non gli piaceva. A Giò Ponti però piacque e Pininfarina finì per chiedermi scusa. Non la rifarò più una cosa del genere. Di fatti non era un’automobile, era un’idea. L’ha comprata un americano, di quelli che bevono il vino vecchio con la cannuccia, e ci ha messo due specchietti cinesi”.
Gli chiediamo delle moto, moltissime, che ha disegnato: “L’ho potuto fare perché sono sempre andato in moto. Le disegnavo perché le vivevo, anche dal punto di vista emotivo. La moto è un oggetto molto strano, per capirla la devi soffrire. Col freddo e con la pioggia, non al bar. Ho sempre ragionato sull’utilità dell’oggetto e questo mi ha portato a disegnare un’auto assieme ad un utensile da cucina. Secondo me è eccitante, perché è un processo che mi porta ad una fatica che è anche un piacere. Normalmente il designer si basa su di un archetipo, si riferisce al già fatto. Quindi fa una masturbazione di quello che c’era, quasi sempre. Perché è più comodo”.
In mezzo a oggetti d'ogni genere ci sono anche coltelli, tutti particolarissimi. Lui sorride soddisfatto: “È il primo strumento dell’uomo, le forme dei coltelli indicano la cultura del popolo che li ha usati. I coltelli norvegesi per esempio sono fatti per sfilettare e sono molto diversi da quelli africani o quelli sardi. Lasciamo stare la guerra, c’è una grossa cultura sulle lame. Sono andato in Giappone per scoprire l’origine delle katane, ho visto la tecnica. Il coltello è il primo strumento che occorre per vivere. Basta fare attenzione a non tagliarsi”.
La mostra si chiama Visions in Design perché lui, per ogni oggetto, è partito da un’idea già definita: un’immagine nitida, magari complessa, e poi il percorso per renderla viva e concreta. Paolo Martin è un ribelle, un artista, ma lo lascia trasparire con le azioni e il pensiero, senza proclami. È figlio di un tempo in cui la notorietà era diversa, di pochi, ma il lavoro era concreto. Oggi probabilmente avrebbe raccolto di più, però facendo meno cose. “Sono contento di aver fatto una mostra privata", si lascia andare alla fine. "Spero vi piaccia”.