E poi ci sono quelli, beati loro, che con i piedi scalzi sul tappeto del salotto pontificano, sentenziano, deducono, apparecchiano giudizi. Ho grande rispetto del lavoro di Francesco Costa, vice direttore del Post, la sua rassegna mattutina è un indiscutibile successo, ma proprio in questa rassegna ha definito Gabriele Micalizzi uno da “prendere con le pinze” perché “sta con i russi”. Spiego meglio. Micalizzi è un fotografo, da 13 anni si fa tutte le guerre, c’è quasi morto, colpito in Siria dalle schegge di un RPG. Abbiamo scritto un libro insieme, che si chiama proprio In Guerra. Non lo dico per smarchettare il libro (sì va bene ok, anche per questo), lo dico per far capire che lo conosco bene, che so di cosa parlo (caratteristica, questa, che non sempre viene soddisfatta a quanto pare). Micalizzi, insomma, esce con un suo reportage da Mariupol, foto e testo, su La Stampa. Tutto molto crudo. Tutto molto diretto. Come nel suo stile.
E Costa cosa dice? Che si tratta di “cose da leggere ma da maneggiare con delle pinze grosse così”. Il motivo? Eccolo. “Un reportage da Mariupol – le parole del vicedirettore del Post – è una cosa notevole, visto che la città è assediata da settimane. Gli ultimi due giornalisti indipendenti, che erano quelli di Associated Press, erano andati via dopo enormi difficoltà, e quindi che un giornale pubblichi un reportage di due pagine da Mariupol è un caso significativo. Ci sono però alcune cose da sapere su questo reportage che mi sembra La Stampa non dica: il reportage è firmato da Gabriele Micalizzi, che non è un inviato della Stampa, ma è un freelance, ed è un fotografo. Com’è possibile che scriva da Mariupol? Credo proprio che lo abbia detto Micalizzi in altri contesti (sulla Stampa non c’è scritto) sui social, che Micalizzi sia accreditato con le truppe che combattono accanto ai russi, con i filorussi del Donbass. Credo che sia “embedded”, come si dice, con quelle forze militari. Lui stesso lavora da molti anni nel Donbass, da prima che cominciasse questa guerra. Ha raccontato in passato di essere stato messo nella blacklist del governo ucraino, avendo sempre raccontato la guerra al seguito dei militari russi o filorussi. Questo non vuol dire che il suo racconto sia di per sé inutile o inaffidabile, naturalmente, però sono informazioni di contesto utili a capire qual è la storia di questo articolo”. Che dice, sempre secondo Costa, tutte cose interessanti, ma da maneggiare, appunto “con delle pinze grosse così”.
Ora: va detto che non è Micalizzi a essere nella blacklist Ucraina ma un’agenzia con cui ha lavorato. Ma non ha certo bisogno che lo difenda io. Non è questo lo scopo del mio ragionamento. Non lo è nemmeno elogiare il suo lavoro (per averlo fatto mi sono preso del filo russo anche io con minacce in dm, vabbe’). La mia è una riflessione: signori e signore, abbiamo un problema. Con la realtà, con il giornalismo, con il racconto dei cattivi o del nemico. Uno: i cattivi, da raccontare, sono sempre molto più difficili e interessanti. È questo il motivo per cui Micalizzi è con i separatisti filo russi del Donbass. È per questo che appena può preferisce stare dalla parte sbagliata. È per questo che anche io, per esempio, se i cattivi sono i NoVax cerco di raccontare i No Vax, se sono i filo Putin cerco di raccontare i filo Putin. Due: questo significa che chi racconta i cattivi la pensa come loro? No. Oggi quando mi sono sentito velocemente con Gabriele, lui mi ha detto soltanto: “L’ho sentito velocemente il podcast, lasciali parlare… Bisognerebbe capire quant’è difficile la mia posizione. Sono uno dei pochissimi europei e sono qui dall’inizio della guerra, da 64 giorni. Nel 2015 ho seguito questa guerra da entrambi i lati. Ero amico fraterno di Andy Rocchelli che proprio qui è stato ammazzato. Io sono qui da sempre in maniera neutrale, ed è la cosa che mi ha permesso di stare qua, dichiarare la mia neutralità. Io ho una credibilità sia personale che lavorativa di un certo tipo, per me è importantissimo. Cosa me ne verrebbe dal fare propaganda? Io devo essere super partes”.
E qui arriva il problema con la realtà: uno è lì, racconta ciò che vede, senza giudizio, un metodo che una volta era sacrosanto, l’unico per fare il giornalista, ma questo se sei dalla parte considerata sbagliata comunque non va bene. È strano, desta sospetti. Mi chiedo, perché il livello di lettura della realtà deve essere sempre così piatto? Tra chi giudica e chi si sporca le mani bisogna scegliere da che parte stare. Se c’è una cosa che questa guerra ci ha ricordato è che ancora una volta, ancora oggi, ciò che conta di più è andare a vedere con i propri occhi. È la forma più alta per raccontare. Più nobile. Più vera. Più preziosa. E più sei dove gli altri non riescono ad arrivare più sei bravo a fare questo mestiere. Tutto il resto sono chiacchiere. E le chiacchiere, signora mia, a un certo punto stanno a zero. A zero proprio.