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Se c’è una cosa che abbiamo capito da questa guerra è che i fotografi sanno fare anche il lavoro dei giornalisti (e forse pure meglio)

  • di Maria Francesca Troisi Maria Francesca Troisi

2 aprile 2022

Se c’è una cosa che abbiamo capito da questa guerra è che i fotografi sanno fare anche il lavoro dei giornalisti (e forse pure meglio)
C’erano una volta i giornalisti che scrivevano dei grandi pezzi dal fronte. Per fortuna ci sono ancora, ma se c’è una cosa che questa guerra ci ha insegnato è che molti fotografi oramai sono più bravi dei giornalisti a raccontarla. Primo perché bastano a se stessi (fanno video, montano e scrivono tutto insieme) sia perché sono meno impostati davanti alla telecamera. Agiscono di pancia, se ne fregano delle cadenze neutre e sono più coraggiosi. Da Micalizzi a Panella, ecco tutto i casi che ci hanno colpito

di Maria Francesca Troisi Maria Francesca Troisi

In barba ai nostri opinionisti da salotto, che sfruttano la drammaticità del momento in cerca del loro posticino al sole, in questo e codesto talk show, a raccontare davvero la morte, la miseria, il dramma, insomma la storia che si scrive e consuma davanti ai nostri occhi, ci pensano coloro che il fronte della guerra tra Russia e Ucraina lo calpestano veramente ogni giorno. Tralasciando gli inviati dei più disparati Tg formato famiglia, di cui alcuni abbastanza improponibili (leggi alla voce Mattia Sorbi), e pochissimi davvero sul posto (i più stanno al confine), intenti a disquisire, a volte, in mancanza di reali prove, anche di aria fritta, a fare davvero la differenza, e pure in Italia, anche questa volta sono i fotoreporter. Pochi mezzi a disposizione, il più delle volte armati solamente di fedele macchina fotografica, zaino in spalla e poco altro per arrangiarsi (se si esclude il coraggio), sono di fatto l'anima visiva di quello che è, a tutti gli effetti, il conflitto europeo più grave dai tempi della Seconda guerra mondiale.

La loro forza è nelle immagini e nei video, che sostituiscono appieno la retorica del testo scritto, sbattendo in faccia agli spettatori, e senza sconti, il dramma di chi questa guerra la vive davvero sulla propria pelle. Uomini che uccidono per non essere uccisi, gente comune, volti di giovanissimi soldati stanchi e impauriti, città ridotte in macerie, affamati e assetati, morti e feriti, sale ospedaliere improvvisate nelle chiese, madri che piangono i figli morti e bimbi disorientati e senza più lacrime. Insomma, l'obiettivo del fotocronista tratta tutti con la stessa equità, catturando la paura, la solitudine, la fame, l'attesa, la disperazione e la speranza, la morte e la vita che continua, nonostante tutto. 

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Corpo martoriato con svastica, Mariupol Gabriele Micalizzi

I più sono partiti subito verso il fronte, alcuni a spese proprie, e i loro scatti e video hanno già fatto il giro del mondo. Abbiamo avuto ancora una volta conferma dello spessore, per esempio, delle immagini e dei filmati di Gabriele Micalizzi, milanese doc, uno dei fotoreporter che dagli inizi vive il conflitto in prima persona, documentando con i suoi occhi quanto sta accadendo (le sue foto sono state pubblicate, tra gli altri, da Le Monde, Liberation, Repubblica). Ed è sempre suo il formidabile, nonché devastante, servizio andato in onda giovedì sera a Piazza Pulita (che domina l'audience tra i programmi d'attualità) sui fantasmi di Mariupol, la città più massacrata dell'Ucraina.

Immagini che fanno a pugni con la nostra coscienza e che fotografano una città distrutta e disseminata di resti umani. "Viviamo da più di un mese nello scantinato. Per avere l'acqua dobbiamo camminare per cinque chilometri... come hanno potuto metterci in questa situazione... aiutateci, fate qualcosa..." è lo straziante appello di una delle donne intervistate. "Se non hai visto Mariupol, non conosci la guerra", sostiene il servizio. Se non hai visto un suo servizio non dovresti nemmeno aprire bocca.

Un altro fotoreporter che abbiamo a imparato a conoscere è senz'altro Gianluca Panella - anche vincitore del World Press Photo 2014 per un reportage da Gaza - che munito solo del telefonino documenta la sofferenza di Kiev per La7 e il Tg1, passando con apparente disinvoltura dal catturare l'arresto di una possibile spia russa alle istantanee dei cittadini in fuga dalla capitale ucraina. Ai due si aggiunge una nutrita schiera di testimoni "in tricea". Da Roberto Travan, che pubblica principalmente per La Stampa, in Ucraina da settimane, e attualmente ad Odessa, da cui rilascia segnali della vita in tempo di guerra, descrivendo, ancor prima, anche la passione delle notti di Kiev a Claudio Localetti, che si autodefinisce "il giornalista combattente" e già in Afghanistan documentava tutto da freelance con diverse dirette social. E ancora Carlo Cozzoli, fotoreporter 28enne di Novara, intercettato dall'agenzia stampa AdnKronos, che da circa un mese racconta la resistenza del popolo ucraino, spostandosi tra varie città, da Mykolaiv ad Odessa.

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Non sono gli unici. C'è anche Niccolò Celesti, fotocronista fiorentino, nel Paese invaso dai carri armati di Putin da quasi un mese, all'inizio è stato fermato dai militari ucraini - come documento dal Corriere - perché scambiato per sabotatore, e casualmente - quasi testimone (a 500 metri) -  dell'uccisione del giornalista americano, Brent Renaud, il cui nome è salito agli onori della cronaca in quanto primo reporter statunitense morto nella guerra in Ucraina. "Stavo passeggiando per Irpin, in una strada laterale, quando ho sentito improvvisamente un sibilo, era il proiettile di un cecchino..." ha fatto sapere.

Così, mentre sul web e in Tv si avvicendano schiere di commentatori a tempo perso, l'onere del racconto vero e proprio spetta a chi, ancora una volta, si muove nell'infido teatro della guerra, lontano dagli applausi e dagli scannatoi all'ultimo sangue degli opinionisti da talk o da tastiera, ma con mani e piedi calati appieno nella sofferenza. 

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