Se siete italiani e avete avuto circa vent’anni negli anni ’90, è molto probabile che la vita vi abbia portato a Rimini e Riccione, nell'èra delle discoteche più cool che la Terra abbia mai visto. Qualcuno, in una di quelle sere allucinanti, perso in compagnia di gente mai vista prima per i dintorni romagnoli, vi avrà introdotto, più per fame chimica che altro, all'icona di Romagna, la piada. La tipica focaccia sottile di farina di grano, strutto o olio di oliva, bicarbonato o lievito, sale e acqua, che viene tradizionalmente cotta su una lastra rotonda di terracotta detta "teglia", e farcita con formaggio squacquerone, rucola e affettati, pare che abbia origini etrusche ed è molto amata dai romagnoli, a ragione. Tutte le piade incontrate sul cammino in seguito, volente o nolente, saranno state di certo registrate come il cibo in estrema ratio, quello agguantato prima del concerto al camion ambulante "Da Stefanone. l'impero del panino”: la piadina sintetica che si blocca nella trachea prima di pogare al pub metallaro, o prima dell’esame di letteratura comparata, insomma, quella razione miserabile che permette di non morire di fame all’autogrill sfigato. A Roma la sintesi della piadina non cambia. In pausa pranzo, tra un corso e un altro, quando nei paraggi non v’è nulla a parte un bar di ubriaconi con tre arance in vetrina e i tramerdini "tutti su una rota" (quelli dai bordi arricciati che solo Roma può conoscere così bene) e una piadineria, si entra in quest'ultima e ci si nutre come fuggitivi emulanti Harrison Ford nella scena in cui ruba il pranzo al moribondo nella corsia dell’ospedale, prima di farsi la tinta per scappare senza essere riconosciuto. Scena, tra l’altro proprio del film Il fuggitivo. Insomma, tutte le piadine fuori dal raggio romagnolo hanno questo aspetto dimesso da ultimo rancio nei peggiori bracci destri della contea. Di recente pare che La Piadineria, catena italiana con 408 punti vendita, alla quale personalmente non avremmo dato le due proverbiali lire, fondata da due amici bresciani trent’anni fa, è sul punto di essere acquistata dal fondo CvC Capital Partners, per essere spinta all’estero, poiché fattura come uno schiacciasassi.
Noi, come falchi predatori, ma anche parecchio tapini, sempre con il ricordo della morbida piada riccionese di decenni fa, siamo andati a cercare uno dei punti vendita della catena nella Capitale, trovandolo in una strada desolata nei pressi di Piazza Fiume, in una sera di pioggia e imprecazioni romanesche. Quanto di più lontano dai ricordi di gioventù, insomma. Abbiamo trovato un locale a tre vetrine, deserto, impeccabilmente spartano e dall'arredo essenziale, per non dire squallido, dall'aspetto di un algido fast food. Due ragazzi al limite dell’impubere e disponibili ci hanno informato della possibilità di comporre la propria piadina personalizzata, confortandoci parecchio. La piadina bresaola, rucola, avocado e crema di pomodoro secco? Il solito cibo da scegliere se non c'è altro. E togliete il pomodoro secco, per pietà. Eppure, gli ingredienti appaiono palpitanti di vita e la piada reca la dicitura "stesa fresca". Nonostante tutto, sarà la pioggia aldilà del vetro o la solitudine nel locale, a noi dà le emozioni del pasto del condannato. Lo scarico degli ingredienti avviene nei punti vendita una volta alla settimana, dalla sede centrale, un paesino nei dintorni bergamaschi. Si intravede la presenza di una cucina di metallo e una affettatrice, mentre la cassa è sormontata dai vari display luminosi con trenta proposte di piada. Quella dessert a un euro con la nutella è meglio di un calcio al culo. La nutella consolerebbe pure un somaro in procinto di andare al macello, e anche se è poca e la piada è senza particolari lodi, concede quel buffetto consolatorio che non si nega al peggior pellegrino di passaggio. La ingolliamo con rassegnazione. E ogni volta che mangiamo la piadina a Roma sappiamo che è così. Abbiamo la consapevolezza di non aver saltato il pranzo, dimenticando poi l'esperienza. Citando Lillo e Greg in una celebre gag di anni fortunati, ordunque, ‘vattelappià vattelappià vattelappiadina!’.