Camminando sul lungotevere sotto ai platani, all'altezza dell'Isola Tiberina, presi dai fatti propri nel traffico allucinante di ogni giorno, ci si imbatte all'improvviso nella grande Sinagoga di Roma. Il Tempio fu eretto nel 1901 e prese il posto delle cinque ‘scole’, le sinagoghe precedenti presenti nell’area del vecchio e fatiscente ghetto. Da lì il nome di Piazza delle Cinque Scole odierna, appunto, proseguimento di Via del Portico d’Ottavia. E lì la tentazione d’inoltrarsi nei vicoli controllati dai gendarmi, in quelle stradine piene di fascino e mistero, di tradizioni vecchie come la Terra, è tanta. Con la faccia protesa verso un cielo che resta lì, come direbbe quel tontolone di Ligabue, alle undici del mattino, speranzosi di assorbire il tiepido sole romano di una fortunata giornata di gennaio, attraversiamo questo borgo un tempo affacciato sulle rive del Tevere, quando ancora non esistevano i muraglioni che oggi proteggono Roma dalle inondazioni, al prezzo della sparizione di gran parte del fascino di allora e del rapporto della Città con il suo fiume. Costeggiamo il grande candelabro a sei bracci, ci soffermiamo davanti al propileo di ingresso del Portico d’Ottavia, costruito da Ottaviano Augusto in onore della sorella, immaginandone l'originaria maestosità e i due templi che conteneva, dedicati a Giunone Regina e Giove Statore e leggiamo ancora una volta le antiche incisioni sui marmi di quei vecchi palazzi che hanno visto la morte, in quel famigerato 16 ottobre del 1943. Le suggestioni sono certamente di macabro orrore ogni volta che il pensiero va al rastrellamento che vide tirare giù dalle case migliaia di persone portate a morire nei campi. Nonostante siano passati tanti anni il ghetto di Roma – il più antico del mondo dopo quello di Venezia – ancora è intriso di una spessa malinconia, che ha il colore dell’ombra, i miasmi dell’umidità del passato e le umiliazioni delle infinite limitazioni imposte al popolo ebraico, nei secoli.
Tra i ruderi delle colonne del Portico occhieggiano cataste di carciofi romaneschi, verdi scuri e rotondi da fare belli croccanti alla giudìa, in bella mostra per i turisti di Giggetto, pronti a rimpinzarcisi, anche quando non è stagione. Nei sotterranei del leggendario ristorante i resti romani del Portico di Metello del 146 a.C. proteggono e benedicono, tra le vasche romane per le anguille, filetti di baccalà e piatti della tradizione kosher dal 1923. Qui, tra i ruderi del Portico d’Ottavia, fin dal medioevo si vendeva il pesce che arrivava dal Tevere, a due passi dal Teatro di Marcello e dalla scomparsa Piazza Montanara, grazie alle sconsiderate manie di grandezza del Duce. La mattina, in Piazza delle Cinque Scole è un brulichio di persone che si ritrovano, i vecchi seduti sulle panchine con la kippah, i bambini con le cartelle che corrono a scuola tra il vociare del buongiorno di chi si scambia le prime chiacchiere della giornata, nella grande comunità. A noi interessano due cose, la pizza rossa e ‘gli ossi’ di Urbani e la pizza ebraica di Boccione. Quindi procediamo verso Santa Maria del Pianto sicuri, incrociando le pietre d'inciampo, tra il Bar Toto e la pizza kosher della moderna catena di pizza a taglio, dribblando tavolini in cui estasiati turisti si godono al sole un pranzetto di fritti di baccalà. Da Boccione, lì all'angolo da trecento anni, c'è la solita fila che attende paziente di entrare nella bottega e fare razzia di pizza ebraica e torta di ricotta e visciole. Dentro, due operose, spicce Signore dall'aria scocciata si sbrigano a riempire sacchetti di biscotti troppo cotti e torte annerite, da secoli infornate nelle stesse teglie. Sopra le loro teste troneggia la stella di David. “Signora Wilma, quanti anni ha il forno?” Ci azzardiamo a chiedere di fretta, con il timore di venire imbruttiti. “Era del bisnonno di mio nonno, trecento anni fa! Si sono fermati solo durante le deportazioni e alla fine della guerra hanno riaperto. Mo però non è il momento adatto per chiacchierà, non lo vedi quanta gente c’è?”, Ci dice Wilma Limentani, tagliando uno dei giganteschi kranz all’uvetta e canditi in vetrina, facendosi largo tra i clienti piantati sull’uscio.
La bottega è minuscola, scavata all’interno di un superbo e curioso palazzo che reca una fascia marmorea decrepita quanto meravigliosa sulla facciata. È la casa di Lorenzo Manilio, commerciante di spezie talmente appassionato di Roma che si fece costruire la propria dimora con un’iscrizione in latino che omaggia la città, sperticandosi in profonde lodi d’amore. ‘Urbe Roma in pristinam formam renascente laur manlius karitate erga patriam aedis quo nomine…’ “Mentre Roma rinasce all’antico splendore, Lorenzo Manilio, in segno di amore verso la sua città, costruì dalle fondamenta sulla Piazza Giudea, in proporzione con le sue modeste possibilità, questa casa che dal suo cognome prende l’appellativo di Manliana, per sé e per i suoi discendenti, nell’anno 2221 dalla fondazione di Roma, all’età di 50 anni, 3 mesi e 2 giorni; fondò la casa il giorno undicesimo prima delle calende di agosto”. La data dell’edificio, anno 2221, è calcolata dall’anno della fondazione di Roma (753 a.C.), che corrisponde all’anno 1468. Non pago, Manilio ha fatto incidere sulle finestre per tre volte il motto ‘Ave Roma’. È inutile, i romani non riescono a reprimere l’istinto di ripetere forza Roma neanche in procinto di esalare l’ultimo respiro ar San Camillo. Noi abbiamo guadagnato la nostra busta di carta con mezza torta di mandorle, mezzo kranz e una torta alla ricotta e visciole, rinunciando con doloroso virtuosismo alla pizza ebraica e torniamo per strada litigandoci morsi di dolcetti. Capita che ogni tanto qualcuno si scambi la ricetta della concia, una bontà giudaico romanesca inimitabile come tantissimi altri piatti tipici, fatta di zucchine fritte nell’olio e condite con l’aglio, l’aceto e la menta in cui lavarsi letteralmente la faccia, insieme a tre etti di carne secca tagliata fina e un pezzo di pane. Certo le ricette casalinghe sono migliori, e non tutti i ristoranti del quartiere ormai sono indimenticabili, purtroppo. Ma voi cercate il migliore e come si dice, mazal tov! Boccione è sempre lì, da trecento anni, all’angolo di palazzo Manilio, a pochi passi dal Tempietto del Carmelo, in Vicolo dei Costaguti, dove la sera, secoli or sono, si svolgevano le prediche cattoliche forzate per gli ebrei. Che sia Purim o Chanukkah, che sia kippur, lo troverete, Ma mai, mai a shabbat!