Pinocchio, in fuga dal destino di diventare un somaro, dopo essere arrivato nel paese dei balocchi, finì nella pancia della balena, dove riabbracciò Geppetto. Noi mentre ascoltavamo la favola di Carlo Collodi raccontata da qualche babbo speranzoso di insegnarci a non emulare il discolo Lucignolo, non pensavamo lontanamente alla possibilità che Pinocchio – ma anche Giona, nella versione biblica- si salvasse non grazie all’ingegno ma alla fame. Cosa sarebbe accaduto infatti se Pinocchio fosse stato norvegese? Considerate le grosse reticenze da parte dei norvegesi ad abbandonare la tradizionale pratica della caccia alle balene, risalente al 6000 a.C., il burattino cattivo di certo non ci avrebbe pensato due volte e se la sarebbe mangiata a morsi. Alla faccia della metafora dell’ignoranza e della conoscenza. Nonostante il divieto internazionale di caccia alle balene ormai in vigore dal 1982, Norvegia, Islanda e Giappone continuano a infischiarsene uccidendo i mammiferi marini, tanto che da allora il bottino ammonta a 21.760 animali morti. La Norvegia, oltre al vanto di essere la Nazione con maggior benessere economico – è ricchissima di petrolio - con il più elevato grado di istruzione, qualità di vita e sistema sanitario del mondo è addirittura il primo paese per commercio di carne di balena, nonché il primo responsabile per uccisione dei cetacei, nonostante solo il 2% dei norvegesi dica di nutrirsene. Nel 2023 le balene uccise dalle baleniere norvegesi - pare che prediligano gli esemplari di femmine incinte, per la qualità migliore delle carni- sono state 570, un numero superiore alla quota di caccia legale stabilita dal Governo, mentre la carne di balena è venduta normalmente nei ristoranti. La controversia si basa sul fatto che per il Governo norvegese la caccia sarebbe etica e sostenibile, mentre secondo gli scienziati ambientalisti questa costituisce un pericolo per l’ecosistema marino e una pratica crudele inflitta agli animali, che non muoiono immediatamente una volta arpionati. Insomma, nonostante i divieti la mattanza continua. Ma cosa avrai mai di speciale la carne di questo bestione dei freddi mari del nord? Per scoprirlo non ci resta che raggiungere la penisola scandinava, precisamente Tromsø, nel cuore del circolo polare, sfidando il gelido inverno artico, a caccia di balene.
Detto fatto, abbiamo chiesto in prestito a Reinhold Messner la maglia termica, trangugiato l’antigelo, dato da mangiare al cane Armaduk e messo in pausa Maracaibo di Vacanze di Natale per spingere play sul Sony con la cassetta del Banco del Mutuo Soccorso, alla traccia Moby Dick. Fortunatamente l’indomito spirito del viaggiatore dei nostri intrepidi conoscenti, veri cittadini del mondo, ci ha incoraggiato, visto che hanno accolto la nostra decisione di intraprendere la mission con boutades di stampo assolutamente globetrotter del tipo “Ma ‘ndo caz*o annate?”, “A funivia costa centocinquanta euri ahoo”, tra le quali si sono distinte le più sagaci, come “brrrr, che freddo”. Così siamo partiti alla volta della Norvegia, inseguendo la stella polare targata Finnair, sperando di non incrociare troll bugiardi durante il cammino, con la benedizione di Odino. Al Seven Eleven di Tromsø c’è un distributore di caffè che avverte “no time for bullshit, grab a coffee”, frase che riassume molto bene il mood norvegese. Poche parole, ognun per sé, statevi tutti a una spalla dal culo a vicenda. Eppure, i suicidi annui sono 530, su una popolazione di cinque milioni di persone. Pensavamo di più, nonostante i paesi scandinavi abbiano la fama di essere i più felici al mondo. Forse in questa storia dell’essere introversi e autonomi sino al solipsismo più sinistro c’è qualche vantaggio di cui dovremmo fare tesoro, chissà. Una volta imparato questo, i meno ventuno gradi di media giornaliera e l'oscurità dell'inverno artico vi sembreranno un gioco da ragazzi. Certo resta sempre il problema della sopravvivenza, considerata la malsana usanza norvegese di nutrirsi – a parte che di pesce- di orride porcherie in scatola precotte e di importazione, visto che anche il pane contiene additivi. Ma tanto noi siamo qui a caccia di balene, perché siamo brutte persone e ce ne vantiamo moltissimo e al pari del Capitano Achab sfidiamo il periglio per “acquisir virtute e conoscenza”.
Appena toccato il suolo norvegese, con un gelo che ci smerigliava il pelo del sopracciglio, ci siamo diretti quindi alla ricerca del cetaceo, fottendocene delle northern lights e scoprendo che in Norvegia esiste un menù del lunch che non comprende la balena, nemmeno se ti offri di acchiapparla a mani nude, e un menù serale dove invece è prevista, a patto di riuscire ad accaparrarsi una prenotazione per cena. Cosa ardua, vista l’affluenza di gente. Noi a mezzogiorno – con la luce delle 23.00 italiane- eravamo già lì con l’idea di ingozzarci di balena, ma abbiamo dovuto ripiegare sulle tradizionali haddock fiskekaker – frittelle di fecola e ritagli di pesce surgelate presenti in ogni banco frigo dell’Isola di Tromsoya- per poi attendere con pazienza di procacciarci la meritata porzione di cetaceo serale. Per questioni probabilmente immorali è vietato fare uno strappo alla regola chiedendo balena a mezzodì. Ad ogni modo alle 20 eravamo pronti alla pugna contro Moby Dick in un rinomato ristorante del porto, arpionando del pane alla crema di aglio. Finalmente il grosso mammifero ci si è palesato dinanzi sottoforma di arrosto a fette, su un monte di patate e piselli stufate. In poche parole, un brasato di balena col purè. La carne è scura, compatta e molto fibrosa, al pari di un taglio di manzo. Il sapore è vicinissimo a quello di un filetto, ma senza l’aroma pungente del manzo. Per forza, è balena. La consistenza delle carni non è neanche lontanamente simile a quella del pesce; sarà che non siamo abituati ma abbiamo idea di mangiare carne umana. A tratti si avverte un vago sentore salmastro.
Lo chef ci avverte che il taglio di balena a noi servito è locale, proveniente dalle acque entro i confini dei fiordi norvegesi, della cosiddetta minky whale, o balenottera blu, legale, cioè “approvata della legge”. Le fibre in realtà sono vene e l’eventuale “pesantezza” della carne è dovuta al fatto che è simile al fegato. È scura perché è particolarmente ricca di mioglobina, proteina di trasporto dell’ossigeno. “È come il Sunday roast della domenica, molto prezioso”, ci dicono. “Siete fortunati a poterne approfittare. La balena è grande e ogni taglio è diverso dall’altro; non si sa mai che parte capita”. Ebbene a noi, sarà l’abitudine, sarà questa tendenza cruelty free che ci ha contagiato ultimamente, o la difficile edibilità della carne per i nostri palati mediterranei ma questa balena mica ci è tanto piaciuta. C’è tra noi chi ha gradito però e ha anche dormito tra due guanciali invece che sul lampadario, funestato da un troll riottoso, digerendo benissimo. Noi al contrario abbiamo sognato di salpare per i fiordi a bordo della baleniera Pequod, rimettendoci una gamba come da copione. All’esterno la notte è limpida e profonda, la splendida Cattedrale Artica sorveglia la baia più a nord del mondo e noi possiamo dire di non aver contribuito nel nostro piccolo all’estinzione delle balene, visto che la minky whale per ora non è assolutamente in pericolo. E citando il Capitano Achab, mentre ci si gelano gli arti cantiamo “Ah! Com’è dolce, dolce, dolce l’aria, com’è dolce il vento e il cielo!”