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Team Radio in MotoGP? Dio salvi il motociclismo dal formulaunesimo

Emanuele Pieroni

15 settembre 2020

Se c’è una disciplina del motorsport che ha perso appeal è proprio la Formula1, eppure la MotoGP sembra fare di tutto per inseguirla, copiarla e, probabilmente, fare pure la stessa fine. La proposta di un collegamento radio, magari da dare in pasto ai media, tra piloti e team è più che attuale. Ma il motociclismo è fatto di scritte ai box, di messaggi in codice e di solitudine dentro al casco. Per favore, evitate!

di Emanuele Pieroni Emanuele Pieroni

Questo è un appello senza appello. Perché nessuno potrà mai convincere chi firma questa opinione della bontà dell’ultima futuristica proposta fatta circa la MotoGP: mettere in collegamento piloti e team attraverso i team radio tanto cari alla Formula 1. Il solo pensarci fa venire i brividi e lo so benissimo che tanti sono favorevoli, anche dentro la nostra stessa redazione. Ne abbiamo parlato, ci siamo pure un po’ scontrati e, alla fine, abbiamo convenuto che su una roba così non ci saremmo mai trovati d’accordo. Tanto da decidere di fare due articoli sull’argomento. Uno sulle ragioni del no e uno sulle ragioni del sì.

Ma ve lo immaginate un pilota in pieno picco adrenalinico, concentrato a bestia a tenere a bada i 280 cavalli della sua moto, che deve pure starsi a ricordare di non dire parolacce o roba del genere dentro al casco? Dai su, ma ci pensate a Valentino che – facciamo l’esempio di domenica scorsa – seminato da Morbidelli e Bagnaia sulla pista di casa si trova a dover tradurre la sacrosanta esclamazione che gli sarà certamente venuta in testa con un “accipicchiolina, i miei amici Franco e Pecco mi hanno sorpassato”. Dai su, non si può sentire. Perché tanto è chiaro che il collegamento ipotizzato non sarebbe in favore di una migliore comunicazione con i box e nemmeno in nome della sicurezza in pista. Se hanno proposto i team radio è solo perché quelle registrazioni, poi, possono essere  date in pasto ai media. È vero, faccio questo mestiere anche io e non dovrei sputare nel piatto dove mangio, ma l’idea di stare lì a sbobinare quello che un pilota dice al suo team, o peggio ancora ciò che dice a sé stesso dentro al casco o agli avversari in particolari situazioni di gara, mi fa comunque vomitare. Perché il motociclismo è solitudine, è scelte prese da soli, senza influenze di sorta, che devono durare solo lo spazio di un breve passaggio a gas aperto davanti alla corsia box. Per comunicare ci sono i vecchi, coloratissimi e sempre cari cartelli: fatti di codici indecifrabili, distanze, messaggi nascosti e non solo. E lo spettacolo sta pure nel provare a capire quello che viene chiesto attraverso i pannelli.

Qualcuno potrà obiettare che in Formula1 lo fanno già da un po’ e che anche su una monoposto un pilota è da solo. Ma il punto è esattamente questo: perché si deve sempre inseguire la Formula 1? Siamo sicuri che sia l’esempio? Sono anni che è di una noia mortale e sono ancora più anni che i piloti sono ormai visti alla stregua degli omini dei crashtest. Tanto che lì già si parla di mappature e settaggi sull’elettronica che consentono a chi guida anche di sbagliare. Il motociclismo c’ha già provato con il monogomma: un fallimento totale. Con l’unico risultato che adesso sono le gomme a stabilire le performance. E anche con l’inserimento dell’elettronica (quello sì che era inevitabile, per ovvie ragioni di mercato) le cose non sono andate meglio: trovatene uno che vi dice che il motociclismo di oggi è meglio di quello di prima, quando l’unica mappatura risiedeva sul polso destro e sulla sensibilità delle chiappe dei piloti. Un conto sono gli sviluppi, con la MotoGP che, come la Formula1, è utile per mettere a punto strumenti in grado di migliorare poi le esperienze di guida anche nel quotidiano, soprattutto nella direzione della sicurezza, ma tutt’altro conto è andare a fare le “piche di paese”, favorendo dialoghi (che nel motociclismo non sono mai esistiti se non in gesti, sguardi e cartelli) per andarli poi a spiare.

Perché alla fine di tutto la vera mission è esattamente questa. Lo abbiamo già visto per il calcio, quando è stato consentito alle telecamere di entrare in quel luogo sacro che era lo spogliatoio. Lì dentro, e chi ha giocato un pochino a calcio ne è perfettamente cosciente, si faceva di tutto. C’era la libertà di regredire, di fare squadra attraverso linguaggi spesso tutt’altro che eleganti, su temi non proprio adatti alle telecamere e quasi sempre scherzando in modi e con maniere al limite dell’ortodossia. Adesso che le telecamere entrano negli spogliatoi è cambiato tutto, sembra che quei posti si siano trasformati in una fiera della cosmetica, dove ognuno è impegnato a far vedere quel pettine piuttosto che un altro, quel gel piuttosto che un altro, tutti rigorosamente imbellettati come su un set. E manco una parolaccia.

Il Grande Fratello dentro il casco dei piloti di motociclette no! Per favore, no!

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