I motivi sono tre. Il primo: lo vediamo in televisione da 35 anni (adesso il sabato e la domenica con Uno Mattina in famiglia su Rai 1), preciso, puntuale, autorevole ma sempre vicino ai telespettatori, mai distante. Il secondo: il nome, che ti resta impresso perché ha un ritmo tutto suo, sette lettere per il nome e sette per il cognome. Tiberio Timperi. Il terzo: gli occhi. Chiari è dir poco. Per queste tre ragioni è una delle persone più riconoscibili della tv italiana. Adesso vive in Umbria, in uno di quei borghi che ti trasmettono pace, che ti fanno apprezzare la lettura dei giornali la mattina, la chiacchiera con gli anziani del posto fuori dai bar, soprattutto in questo periodo, con il sole che fa primavera e la voglia di prendere un’auto, salire sui Monti Martani e andare a mangiare un panino con vista sulle colline tutte intorno. Come abbiamo fatto noi. Lassù ci arriviamo con un Land Rover Defender 110 del programma Approved. Tiberio scherza sulla mascherina: «Mi fa delle orecchie a sventola che il Servillo che fa Andreotti me spiccia casa». L’accento romano, chiaramente, lo tradisce.
Qui in Umbria ti sei trasferito da poco più di un anno: è stato decisivo il lockdown?
Era un’idea che coltivavo già da un po’, con il lockdown si è fatta più concreta. Qui mi trovo bene, puoi andare per i boschi senza mascherina e respirare aria buona. Anche il contatto umano è diverso, meno diffidente e più diretto. Ma ogni venerdì torno a Roma per lavoro per il mio programma che conduco insieme a Monica Setta.
Il tuo primo amore però è stata la radio.
Ho cominciato quando avevo 13-14 anni, a Cesenatico, dove andavamo in vacanza con la mia famiglia. Un ragazzo della mia comitiva aveva una radio nel sottoscala di un bar e una volta, per sbaglio, trasmisi: un’epifania. L’anno dopo mi presento a Radio Mare Cesenatico, faccio un provino e mi prendono. Poi nell’83 entro in Rai con un concorso e rimango a Radio Rai fino all’87. Solo dopo la tv: Tele Montecarlo, Mediaset e dal 96 il ritorno in Rai. Ma la radio mi è rimasta nel cuore, è fantasia al potere.
Spiegami.
Ai miei tempi facevo tutto io: mettevo i dischi, rispondevo al telefono, mixavo, eravamo io e il microfono. In televisione invece ci sei tu ma anche il microfonista, il cameraman, l’assistente di studio, il regista, almeno una decina di persone. In radio ci sei tu e chi ti ascolta dall’altra parte. Si instaura un altro tipo di rapporto. Per questo motivo non amo molto la radiotelevisione, è una sorta di cortocircuito, un ossimoro, o è radio o è visione. La radio è immaginazione, la visione della radio toglie la poesia.
Cosa ti piacerebbe fare in radio adesso?
Trasmettere di notte dalle 11 fino alle 2, mandare in diretta le telefonate degli ascoltatori, mettere la musica giusta, non la solita playlist che ormai senti ovunque.
Che programmi segui?
Il Ruggito del coniglio su Radio 2, la Zanzara a Radio24. Poi Funky Radio che trasmette tutta la disco music dei miei tempi.
Il concetto della Zanzara è un po' quello che vorresti fare tu…
Però loro parlano di politica e di sesso, a me invece piacerebbe parlare di sentimenti, di psicologia, di amore e la notte è il momento ideale per certe riflessioni.
Dalla radio alla tv, ma anche dalla radio ai motori, perché su Tele Montecarlo seguivi proprio una rubrica sulle auto e sulle moto.Ne sono sempre stato appassionato. Da piccolo, essendo figlio unico, era inutile giocare a Monopoli quindi mi divertivo con i modellini delle macchine. E poi avevo orecchio, abitavo in una strada in salita, quando le macchine scalavano la marcia riuscivo a riconoscere marca e modello: la 2 Cavalli, la 124, che aveva un rumore di marmitta molto particolare, la 500 o la 600.
Cosa ti è rimasto di quegli anni?
Be’, dal punto di vista dei motori la voglia di guidare auto che hanno una storia, un vissuto. Noi siamo qui con il Land Rover Defender 110 per esempio. Nella tua auto ti devi riconoscere e la tua auto ti deve far riconoscere, ma non parlo di status, mi riferisco alla personalità. Il Defender è riduttivo chiamarlo auto: è un’icona, ti metti al volante di un pezzo di storia riattualizzato, con la quale riesci a fare cose che con la vecchia non saresti riuscito a fare, se non con uno spirito eroico perché fare anche 100 km in autostrada era un’esperienza metafisica, con questa invece riesci a fare molto di più.
C’è anche un valore etico nell’utilizzare un’auto usata?
Non la chiamerei usata, direi più rodata, collaudata. Magari a volte è difficile trovare l’abbinamento che vuoi però hai la sicurezza che se si rompe qualcosa sei coperto da garanzia. Il programma Approved poi è proprio da considerare come un terzo brand per Jaguar Land Rover, questo lo rende molto efficiente e accessibile e poi con un’auto così non hai il patema del graffietto, senza contare che con le risorse finanziare che risparmi puoi comprarti altre cose. Durante il lockdown ci siamo resi conto che siamo immersi in un sistema consumistico e che devi dare un valore ancora maggiore a ciò che scegli di acquistare.
Nel tuo lavoro, invece, questo lockdown cosa ha cambiato?
La prima cosa che mi viene in mente è che si sente molto la mancanza del pubblico, perché se fai una battuta e il pubblico ride allora capisci che hai fatto una cosa giusta. Il pubblico è un po’ il termometro di quello che stai facendo. Viviamo in questo momento particolare che sicuramente passerà, ma secondo me non tornerà tutto come prima. Si è capito che la televisione si può fare benissimo anche da casa, che quello che conta è la sostanza.
Cosa manca oggi alla televisione italiana?
Il problema è che si dà troppo peso al numero degli ascolti, bisognerebbe tornare a misurare il gradimento. Gli ascolti servono ai pubblicitari non servono a costruire i contenuti dei programmi. Per come la vedo io sarebbe ora di smetterla di drogare i contenuti per pompare gli ascolti perché poi alla fine ci ritroviamo con programmi dove ti devi presentare nudo. E poi mancano gli autori, quelli bravi, con le idee.
In che senso?
La televisione è immersa in questo sistema industriale globale che se in Afghanistan o a Timbuktu fanno un programma che funziona qualcuno lo compra, lo porta qui, lo riadatta e poi lo vende. Una certa tv dal molta importanza alle società di produzione che propongono format preconfezionati. Autori e conduttori, magari con idee e proposte, raramente vengono ascoltati. Se hai un’idea è difficile trovare interlocutori.
Però forse qualche spazio c’è. Penso a Una pezza di Lundini, la vera novità del 2020.
È un programma fatto dal mio grande amico Giovanni Benincasa, che considero un genio e che, per fortuna, ha avuto grande seguito sui social. Spero che vada avanti perché per raggiungere la perfezione ci vogliono anni, non ci si può basare sugli ascolti solo delle prime due puntate, sarebbe come pensare di inventarsi il Land Rover Defender da zero, quando in realtà questa macchina è frutto di 40-50 anni di evoluzione.
Quanto i social network stanno condizionando la televisione?
I social stanno condizionando troppo tutto. Adesso con i social uno vale uno ed è un concetto che non condivido e che per me non è valido in nessun campo. Tutti noi abbiamo gli stessi diritti ma siamo diversi e la diversità è un valore importante, dalle diversità si impara molto. Purtroppo alcune figure apicali della tv cedono alla tentazione della realtà virtuale dei social. Per me i social vanno presi con le molle. Arrivo a dire che sono un male di cui forse si potrebbe e dovrebbe fare a meno. Ormai tutti parlano di tutto, c’è l’albo degli opinionisti, gente che è famosa solo perché è famosa, che va in televisione a dire la sua, si prende il suo bel gettone di presenza e va a casa. Lo sai perché l’Italia spesso è paralizzata?
Perché?
Perché si lavora solo per amicizie e conoscenze e non per competenze. Il nostro Paese è figlio di gente come Adriano Olivetti e Giulio Natta, quello che ha inventato il Moplen. A queste figure dovremmo tornare. Fedele Confalonieri diceva sempre: “Ognuno deve fare il proprio mestiere”. Ecco, sembra che ormai tutti siano buoni per fare tutto. Siamo arrivati al punto in cui l’incompetenza è una qualità.
Chi sono i tuoi maestri?
Sicuramente mio padre, perché mi ha insegnato i valori dell’onestà e della coerenza. Poi sicuramente Renzo Arbore e Gianni Boncompagni che mi hanno acceso la voglia di fare questo mestiere.
E i tuoi riferimenti professionali?
Enzo Tortora per l’eleganza, Corrado per l’ironia e Gianni Minà perché è un genio, è riuscito a fare delle domande impossibili a persone inarrivabili.
Cosa fai per tenerti aggiornato sul tuo lavoro dopo 35 anni di carriera?
Cerco di non essere mai banale, e se devo esserlo perché le circostanze lo impongono cerco di esserlo in maniera originale. Seguo con attenzione i canali Discovery perché ci trovo molti spunti intelligenti e perché riescono a fare televisione con pochissimo. Per esempio in Affari a 4 ruote hanno preso due sconosciuti, che poi sono diventati famosi perché il programma funziona. Mi piace l’idea di portare in tv persone comuni e realtà di tutti i giorni.
Nella tv dei tuoi sogni cosa vorresti fare?
Io penso di essere rimasto un po’ come l’ultimo degli artigiani. Alla fine sto vivendo il mio sogno, godo della stima degli addetti ai lavori e dell’affetto del pubblico, e questo per me è molto importante. Quando si affronta un viaggio bisogna sempre tenere presente da dove si è partiti, non solo dove si vuole arrivare.
E tu da dove sei partito?
Provengo da una famiglia operaia che con i parametri di oggi potrebbe essere definita povera e sono arrivato a essere tra le 40-50 persone in Italia che fanno tv. La mattina quando mi faccio la barba so che devo dire grazie solo a me stesso e a chi mi ha dato fiducia. Tutto quello che ho fatto l’ho fatto da solo senza mai scendere a compromessi.