Era febbraio o giù di lì e a Pesaro, al Teatro Rossini, le Desmosedici del Team Mooney VR46 si mostravano per la prima volta. Appena pochi giorni prima, sempre a Pesaro, era stato inaugurato il casco di piazza D’Annunzio, un tributo che la città marchigiana ha voluto fare a Valentino Rossi alla fine di una carriera lunghissima e pazzesca e che, vuoi o non vuoi, è stata manna dal cielo pure per quel pezzo di terra che è ancora Marche e quasi Romagna. Però andando in giro in quei giorni a Pesaro si respirava un’aria un po’ così: quell’aria che c’è quando si celebra una fine. Ok il nuovo team, ok tutto, ma Valentino Rossi aveva detto basta con le corse e la pesantezza di una irripetibilità la sentivi proprio tutta.
Non sarà più la stessa cosa. L’abbiamo sentito dire e l’abbiamo detto qualche milione di volte nell’arco di un anno intero. E magari è pure vero. Però due caschi, oggi, c’hanno ricordato che l’antidoto a ogni irripetibilità è l’imprevedibilità. Insomma: la certezza che tanto andrà comunque in maniera diversa e che non necessariamente sarà peggiore. A insegnarcelo è toccato ancora una volta a Pesaro, attraverso due caschi appunto. Quello enorme di Valentino Rossi e quello, tutto d’oro, che nel box Ducati avevano preparato per Pecco Bagnaia, chiudendolo in una cassaforte che s’è schiusa digitando i numeri magici di Pecco: il 21 della Moto3, il 42 della Moto2 e il 63 che è stato somma degli altri due quando Pecco è arrivato in MotoGP.
Che cos’è il casco per uno che va in moto non c’è neanche bisogno di stare a dirlo. Perché no, non è solo quell’oggetto prezioso che ti salva la pelle. Il casco è l’interruttore di tutto, è il passaggio in modalità motociclista. E’ lì che chiudiamo le emozioni, è lì che concentriamo il pensiero, è lì, dentro il casco, che probabilmente ci siamo sentiti liberi davvero di quella libertà che avverti solo quando sai di essere abbastanza protetto. Protetto non tanto dai pericoli della strada o della pista, ma protetto da tutto ciò che fa male veramente. Che poi è un po’ il motivo per cui Pesaro non ha scelto un busto, una gigantografia, una statua per celebrare la carriera di Valentino Rossi, ma ha scelto il suo casco. Ossia l’unico oggetto che lo ha conosciuto veramente e con cuoi, vuoi o non vuoi, il Dottore ha condiviso proprio tutto, pensieri compresi.
Quel casco, oggi, è rimasto alle spalle della gente (lo abbiamo raccontato qui). Come un simbolo che c’è, che è enorme e benevolmente ingombrante, ma che è comunque alle spalle. Mentre pochi metri più avanti un maxischermo proiettava il GP di Valencia, l’ultimo di una stagione che è stata la prima senza Valentino Rossi. Quella, insomma, che avrebbe dovuto fare quasi schifo, quella che non avrebbe offerto spunti, quella che non avrebbe mai potuto competere con il passato. Un passato rappresentato simbolicamente proprio da quel casco, che di fatto è rimasto dietro la folla che in piazza a Pesaro, oggi, guardava in un’altra direzione: avanti. Avanti verso un futuro che è arrivato lo stesso, verso un finale di stagione nel segno dell’italia del motociclismo. Con una moto italiana e un pilota pesarese (seppur d’adozione) sul tetto del mondo. Dopo una rimonta forsennata, dopo un’annata indimenticabile nonostante l’irripetibilità, e pure dopo una bagarre all’ultima gara che è costata un’aletta alla Desmosedici e qualche anno di vita a tutti noi. Prima che Pecco Bagnaia, proprio dentro quel maxischermo, andasse a prendersi il suo di casco. Tutto dorato e pronto a dargli riparo pure per lasciarsi andare alle lacrime. L’ha indossato subito, Pecco, e non se l’è tolto più fino alle necessarie interviste del post gara, ribadendo, però, che con quel casco questa notte ci andrà pure a dormire. Sperando che a dormire ci vadano, ma definitivamente, pure le sentenze su quello che è stato e non sarà mai più. Tutte certezze, adesso possiamo pure dirlo, che non valgono assolutamente un ca…sco!