Il cavallo è un animale affascinante. D’altronde da quando l’uomo è riuscito a domarne uno la storia è radicalmente cambiata, al punto che amori, viaggi e guerre hanno accelerato per stare alla sua andatura. È stato così per svariati millenni ed è quasi un peccato che adesso le cose vadano diversamente, con le automobili e gli aerei e tutto il resto. Non credo nella reincarnazione, ma dato che prove non ne abbiamo e bisogna farsi trovare pronti ho pensato che se dovessi morire vorrei rinascere cavallo. Una miscela di velocità, muscoli nervosi e bellezza. Insomma, un bell’affare.
Vorrei rinascere cavallo per il brivido della velocità, per l’altezza al garrese. Per nitrire, impennare. Prima di questo, prima di tutto il resto, vorrei essere quello che dal medioevo ai western di Sergio Leone è stato definito un buon cavallo: figo, relativamente affidabile, dignitoso. Mica purosangue però, quelli si trovano a vivere una vita controllata, gli eccessi vengono vietati come ai figli della monarchia inglese. Anche perché vorrei rinascere cavallo per vincere il Palio di Siena e a correre lì ci vanno i mezzosangue, più lenti ma meno delicati dei loro nobili cugini.
Col tempo ho capito che il Palio è una tradizione ancestrale, così come lo è la cultura dell’ippica, di cui so pochissimo: Bucefalo, Varenne, Bojack Horseman e poco altro. Dato quando rinasci cavallo hai l’incombenza di non comunicare più con gli esseri umani, ho pensato di portarmi avanti e mettere tutto per iscritto già da ora: vincere il Palio, se nasci cavallo, è la cosa migliore che possa capitarti. Meglio di portare sulla schiena divi di Instagram che si scattano foto con una mano e tirano il crine con l’altra. Anche perché col crine ci si fa l’archetto del violino, che viene accordato proprio come lo strumento: non troppo, non troppo poco. Il crine serve la poesia, non i burini col telefono in mano.
Da cavallo preferisco correre il Palio invece di sentire le chiacchiere delle vostre figlie ricche, viziate e principesse che mi accarezzano una volta alla settimana al maneggio. E ancora, meglio annaspare nella terra senese piuttosto che trainare una carrozza caricata a turiste in forte sovrappeso per il centro storico cagando per terra coi paraocchi. Preferisco scattare al segnale del mossiere anziché prendere il sole durante una rievocazione storica con un carabiniere sulla schiena. Il Palio è meglio di altre corse: che si tratti di quelle all’ippodromo, dell’alta società o dei campionati mondiali. Perché il Palio è tutto lì, in un attimo, ed è sacro. Infine, il Palio è meglio del Polo, anche se - che ironia - chi lo critica lo fa con vestiti marchiati Polo Ralph Lauren.
Invece, se sei un cavallo del Palio, il fantino cavalca a pelo, senza sella, perché l’atto richiede rispetto. Tu vieni prima di lui, un filo sopra nella scala sociale, motivo per cui un cavallo scosso - ovverosia col cavaliere a terra - può vincere la corsa. A patto, certo, che sulla testa abbia ancora la spennacchiera a identificare i colori della sua Contrada.
Il Palio di Siena è su tre giri, circa un chilometro in totale: roba da centometristi, tutto e subito, ogni metro è decisivo. Dietro al canape il destriero ha tutti i muscoli in tensione, è nervoso, poi si produce in uno scatto e parte per la corsa. Il cuore pompa ossigeno mentre il corpo lavora a ritmo frenetico. Nebbia scura nel cervello, la velocità come missione di vita, primordiale come nient’altro. Se vinci è un’ulteriore rinascita. Il fantino fa strategie e spende denaro, si organizza con gli altri, forse tradisce i suoi. Il cavallo, invece, deve correre e pensare al ritmo e agli altri suoi simili. Un solo pensiero: magari mi ammazzo ma oggi arrivo davanti.
Se sei cavallo, le proteste dei fanatici che vorrebbero abolire il Palio non le senti. Senti le urla del pubblico, il frastuono della piazza, gli zoccoli sulla terra. Se vinci il Palio di Siena, i contradaioli piangono per te. Sei una macchina da corsa per tre minuti all’anno, forse un paio di volte nella vita. Tutto lì, in quegli istanti. Daniele Manusia, in un bel reportage per Internazionale uscito nel 2018, racconta bene il prima e il dopo: “Tutti i cavalli iscritti al “protocollo” (un centinaio) sono sottoposti a visite periodiche che li giudicano dal punto di vista sia morfologico sia caratteriale […] e devono avere minimo 5 anni (negli ippodromi corrono anche cavalli di due). I veterinari della commissione conoscono la storia clinica degli animali, i loro infortuni, piccoli o grandi. Vicino a Siena c’è una pista con le stesse curve e le stesse pendenze di piazza del Campo, dove si effettuano le corse di addestramento. Il palio ha un’ambulanza per cavalli che, in caso di incidente, sono operati d’urgenza – tornano in scuderia, mi dicono, persino prima che i fantini siano stati visitati al pronto soccorso. L’obiettivo è curarli, non farli tornare a gareggiare. Se il proprietario non li vuole più c’è una pensione in cui i cavalli del palio vanno a trascorrere pacificamente gli anni che gli restano da vivere. In caso di vittoria, i proprietari non guadagnano niente. Devo aggiungere che nessuna delle persone coinvolte ha parlato volentieri con me degli incidenti che possono capitare durante la gara e che possono portare anche alla morte del cavallo”.
Prima di criticare per l’ennesima volta il Palio di Siena, di raccogliere firme per abolirlo, pensate a chi - come me - non vede l’ora di rinascere cavallo per vincere, davanti a tutti anche solo di un centimetro, sulla terra sacra di Piazza del Campo. Che tristezza sarebbe, rinascere per quella corsa e trovarla solo nei libri di storia. Prendetevela piuttosto coi maneggi, con le carrozze in centro, con i gendarmi che ancora sfilano come fossero i Mille di Garibaldi, con gli allevamenti di purosangue. Lasciate stare il Palio. Lasciate ai cavalli una vita tranquilla, l’adrenalina dell’attimo e la magia della velocità. E, soprattutto, lasciate agli uomini quello che li rende tali: passione, dolore e spettacolo. Niente di meno.