Dopo diciannove mesi in cella, Patrick Zaki comparirà questa mattina di fronte alla corte di Mansoura, in Egitto, per rispondere dell’accusa di “diffusione, in patria e all'estero, di notizie false contro lo Stato egiziano”. Rischia fino a cinque anni di carcere per aver scritto un articolo nel 2019 sulla rivista on line Darraj, nel quale denunciava la discriminazione subita da un militare di religione cristiano-copta morto nel Sinai che non aveva ricevuto nessun onore e nessuna sepoltura di Stato. Un tema che evidentemente il giovane sentiva molto da vicino, visto che lui stesso proviene da una famiglia copta osservante. Una accusa che appare incredibile se la mettiamo in relazione agli standard europei, ma che nel suo paese può costare carissima. Almeno, però, la posizione del 30enne inizia a delinearsi visto che fino ad oggi la giustizia egiziana non aveva fatto trapelare nulla di confortante sul suo futuro, così come non collaborò (anzi, probabilmente ostacolò) la ricerca della verità sulla morte dell’italiano Giulio Regeni.
L’Italia, dove Zaki studiava (all’università di Bologna), dal primo giorno si è schierata per la sua liberazione, ma in particolare grazie all’impegno dei professori, dei compagni di corso e di svariate associazioni che lottano per i diritti umani, più che a livello politico dove si sono registrate per lo più frasi di circostanza. Possiamo quindi immaginare quanto queste voci possano influire su un regime come quello del generale Abdel Fattah al-Sisi, che dal 2013 – e dal colpo di stato militare che rovesciò il governo eletto dei Fratelli Musulmani – reprimere la società civile ricorrendo sistematicamente alle sparizioni forzate e alla detenzione in condizioni spaventose, che spesso risultano letali, dove le torture sono una prassi abituale che hanno causato centinaia di morti (anche tra i minori) e restano impunite, secondo organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International.
Perché, quindi, lo Stato italiano non interviene con maggiore vigore? Basterebbe tornare con la memoria al caso Regeni per capirlo, ma vale sempre la pena non dimenticare per rendersi conto su quali basi poggia la nostra economia, spesso costretta a scendere a patti con chi non si fa scrupoli nel mettere da parte i diritti umani per mantenere il potere. Il primo motivo che lega le mani alle nostre istituzioni prende il nome di Zohr IX. Si tratta del giacimento di gas naturale scoperto nel 2015 nelle acque territoriali egiziane, che è stato concesso in gestione all’Eni dopo l’accordo del gennaio 2014 tra il ministero del Petrolio egiziano e l’Egyptian Natural Gas Holding Company (EGAS). Un maxi-giacimento che avrebbe un potenziale di 850 miliardi di metri cubi equivalenti a 5,5 miliardi di barili di petrolio, divenuto nel tempo il giacimento più grande del Mediterraneo orientale che da solo produce il 40% del gas egiziano. Oltre a questo – e diversi altri interessi di Eni nel nord Africa - nel dicembre 2020 l’azienda italiana ha firmato nuovi accordi in Egitto per riavviare l’impianto di liquefazione di Damietta, un impianto che ha capacità di 7,56 miliardi di metri cubi di gas all’anno.
Ma non è solo il gas naturale che ci lega a Il Cairo. Un altro argomento molto convincente per non rovinare le relazioni tra i due paesi riguarda la fornitura di armi, perché dal 2019 l’Egitto è diventato il primo paese verso cui l’Italia esporta questo “prodotto”. E nonostante l’uccisione di Giulio Regeni e la mancata collaborazione per capire chi siano i responsabili, verso al-Sisi praticamente tutti i rappresentanti politici, di volta in volta, si sono piegati a definirlo un partner fondamentale. Dall’ex premier Matteo Renzi, che lo sostenne dopo il golpe del 2013 partecipando al Summit di Sharm el-Sheikh e accogliendolo a Roma dove lo definì un “modello” di stabilità per il Mediterraneo, passando per l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, l’ex ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, fino all’ex premier Giuseppe Conte e al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nessuno ha mai osato mettere in discussione questi rapporti in cambio del rispetto dei diritti umani. Tornando all’esportazione delle armi, nel 2020 sono aumentate passando dai 900 milioni di euro dell’anno precedente a 1,2 miliardi di euro, incluse due fregate Fremm (costruite da Fincantieri). Affari che sono destinati a lievitare ulteriormente fino ai programmati 10 miliardi di euro, con l’invio di 24 M346 jet, 24 Eurofighter Typhoon, 20 navi di pattugliamento e un satellite militare. Come riportato dall’Huffington post “si è aperta la strada ad una cooperazione militare senza precedenti tra Italia ed Egitto, in cambio del silenzio sulle responsabilità egiziane in arresti sommari e sparizioni forzate con la consapevolezza che alla stessa corsa ad armare il Cairo partecipano concorrenti pronti a tutto, come la Francia, la Germania e gli Stati Uniti. Questi ultimi hanno appena firmato accordi miliardari che estendono la fornitura di armamenti al Cairo ben oltre gli 1,3 miliardi di aiuti militari annui già inviati da Washington”.
A tutto ciò, bisogna aggiungere che l’Egitto è di fatto un attore fondamentale nello scacchiere geopolitico, sia per quanto riguarda ciò che avviene in Libia (dove l’Italia ha perso molta della sua influenza dopo la caduta di Muammar Gheddafi, ma non intende farsi del tutto da parte), così come per i sommovimenti dei vari paesi a cavallo tra Medio Oriente, Africa e gli Stati arabi del Golfo Persico, mentre è bene sottolineare la sua strategicità per il controllo dei flussi migratori verso l’Europa. Anche per questo l’attuale premier Mario Draghi, in merito alla scarcerazione di Patrick Zacky, ha preferito mantenere una linea piuttosto ondivaga. Un sussulto lo ebbe quando definì il leader turco Erdogan “un dittatore”, ma poi – anche in questa circostanza per i rapporti economici che intercorrono tra i vari paesi – dopo una telefonata tra i due stemperò quella considerazione assicurando che ebbe un “fruttuoso e amichevole scambio di vedute”. E anche nello specifico sullo studente egiziano che oggi comparirà a processo, quando venne proposta per lui la cittadinanza italiana onoraria, scavò un solco fra le iniziative di facciata e il pragmatismo che doveva difendere gli interessi economici nazionali: “Quella su Patrick Zaki è un'iniziativa parlamentare in cui il governo non è coinvolto al momento”. Per cui, paradossalmente, le speranze che il 30enne possa finalmente essere scarcerato e tornare in Italia a studiare è legata soltanto agli interessi di immagine di al-Sisi, che fra pochi giorni sarà a New York per l'Assemblea generale dell'Onu dove incontrerà il presidente americano Joe Biden per la prima volta. Nell’occasione è prevista la presentazione di una “iniziativa statale sui diritti umani”, anche se è già stata definita dalle associazioni umanitarie “un documento vuoto”. Ma tra i vari segnali concreti per migliorare la propria reputazione agli occhi del mondo, c’è chi sostiene che potrebbe decidere di concedere la grazia a Zaki. Dittatori sì, però, come ci ha insegnato Draghi con Erdogan, a intermittenza. Vediamo se "l'intervallo democratico" si concretizzerà proprio all'Onu.