Ce lo ricordiamo tutti che cosa disse la madre di Giulio Regeni dopo aver visto il suo corpo, no? Riconoscere un figlio solo "dalla punta del naso" e vedere nel corpo torturato "tutto il male del mondo" non è una cosa che si dimentica.
Ma il resto, quello sì, che si dimentica. L'ingiustizia di una storia che nel corso dei mesi ha perso potenza, valore, ricerca di giustizia. E l'accettazione (anche se a parole diciamo di non averlo mai accettato) di una situazione ai limiti della follia. Adesso che la storia si ripete, seppur in tempi e modi diversi, ci ritroviamo a fare i conti con gli stessi sentimenti e, pur continuando a dire il contrario, anche con l'accettazione di un'altra storia assurda.
Un senso di impotenza e indifferenza insieme, lo descrive perfettamente Carlo Verdelli sul Correre della Sera di oggi, perché "in fondo chi se ne frega di un ragazzo egiziano che da un anno se ne sta in un carcere del Cairo senza processo e senza colpe".
Patrick Zaki, in carcere dallo scorso 7 febbraio 2020 con l'accusa di propaganda sovversiva per la pubblicazione di alcuni post su Facebook di controversa attribuzione, resterà ancora in carcere. Altri 45 giorni, poi un'altra sentenza che, probabilmente, allungherà di nuovo la sua detenzione.
Questa storia fatta di incoerenze e ombre si è velocemente trasformata in una strana giostra, che ogni 45 giorni sembra ricominciare. E non abbiamo tempo, oggi in Italia, di pensare anche a lui, al carcere egiziano e al regime di A-Sisi: "La sorte infame di Patrick Zaki è l'ultimo dei problemi: non è bello dirlo ma è ipocrita fingere di negarlo - scrive Verdelli - ma in realtà, la violenza reiterata su quello straniero un po' ci riguarderebbe, visto che proprio straniero il ventottenne Zaki, non è".
Ma no, all'Italia non interessa poi così tanto, che Zaki studiasse a Bologna, non così tanto da usare il pugno duro e da pretendere la verità, mettendo anche a rischio i rapporti tra i due paesi, ma prendendo una posizione che non sia - per una volta - quella della sottomissione perché: "una nazione che salva una vita salva qualcosa di più: la propria coscienza e la propria immagine nel mondo".
Proprio ieri, cinque anni fa, veniva ritrovato il corpo martoriato e seviziato di Giulio Regeni. Nove giorni di un dolore che non possiamo immaginare, descrivere, ripercorrere. Nove giorni che dovrebbero avere un valore enorme: per il nostro paese, che ancora non ha preteso giustizia e per Zaki, che rischia di soccompere nella stessa indifferenza.
"Si sta facendo il possibile" ripete in coro la classe politica, ma dall'Egitto, continua Verdelli, sembrano dire: "Protestate quanto volete, processate a casa vostra i carnefici di Giulio che tanto mai vi consegneremo, vendeteci a buon prezzo le vostre fregate e i vostri elicotteri da combattimento, e fatevi gli affari vostri, che qui la legge è a misura di chi comanda".
Una verità che ferisce, soprattutto se letta con la voce di chi da noi sta ottenendo esattamente quello che gli viene servito. Ma cosa si può fare per aiutare Patrick, se non si è riusciti a salvare Giulio? Cosa si può fare per un "italiano di adozione" che italiano non è, se non si ha ottenuto nemmeno la giustizia per Regeni?
"Ci vorrebbe un moto di coraggio" leggiamo sul Corriere. "Dargli la cittadinanza italiana [...] perché il nostro Stato, oggi più che mai, ha bisogno di dare segnali forti di coraggio. Nel suo proprio interesse, e in quello degli ultimi della fila".
E solo guardando con questi occhi la storia di Zaki la sua libertà diventa una priorità per tutti noi. Al pari di tutte le altre.