I nostri figli sono Giulio Regeni. Noi siamo i suoi genitori, i suoi amici, i suoi parenti. Facciamo uno sforzo e proviamo a pensare cosa ha provato lui, cosa stanno provando sua madre e suo padre adesso che emergono sempre più dettagli. Un testimone l’ha visto in una stanza della National Security egiziana a Il Cairo, nello stesso palazzo del ministero degli Interni. La stanza è la numero 13, quella dove vengono portati gli stranieri accusati di tramare contro la sicurezza nazionale. L’uomo che parla al capo della Procura di Roma e al pm che sta seguendo il caso invece è un agente chiamato Epsilon per garantirgli l’anonimato. Ecco la descrizione riportata sui quotidiani di ieri: “Era il giorno 28 e 29 gennaio 2016. Entrando in quell'ufficio ho visto due ufficiali e altri agenti, poi ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone. Infine ho visto un ragazzo magro, molto magro, in un angolo, era mezzo nudo, nella parte superiore portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava... Era sdraiato steso per terra con il viso riverso... l'ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra. Dietro la schiena aveva segni rossi. Non l'ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e ho capito che era lui”. Giulio Regeni.
Giulio Regeni. Avrà implorato pietà, chiesto un avvocato, nominato la mamma, invocato perdono, anche se non aveva alcuna colpa. Da solo. In Egitto. Lontano. In una stanza di un edificio dove gli unici che potevano sentirlo avevano il solo scopo di fargli confessare qualcosa che non poteva confessare. Ha subito perquisizioni a sua insaputa, Giulio. È stato preso in metropolitana. È stato accusato di essere un appartenente della Fondazione Antipode che spingeva per la rivoluzione. Ma era solo uno studente. Soltanto un ragazzo. Un ragazzo italiano di 28 anni. Ecco perché in quella stanza non c'era solo lui, ma c'eravamo noi. Ripeto spesso una frase di Bill Bullard, pedagogo: «La forma più bassa di conoscenza è l'opinione» dice. Tutti abbiamo un'opinione su tutto, ma le opinioni stanno a zero, non contano quasi mai granché. «La forma più alta di conoscenza è l'empatia». Ecco perché nel dolore di chi gli voleva bene dobbiamo calarci anche noi. Solo così possiamo capire la scure d’ingiustizia nefasta e terribile caduta su Giulio Regeni.
Sono 5 anni che stanno andando avanti le indagini, tra depistaggi, falsità, falsa collaborazione da parte delle autorità egiziane, mancati chiarimenti. Ci sono dei presunti colpevoli con nomi e cognomi. Su Internazionale è uscito un articolo, ieri. Si intitola: «L'Egitto non indagherà più sulla morte di Giulio Regeni». C'è scritto così: «Il corpo è stato ritrovato sul bordo di un’autostrada fuori dal Cairo il 3 febbraio 2016, una settimana dopo la sua scomparsa. Il primo rapporto dei medici legali di Roma affermava che Regeni era stato torturato per diversi giorni e che era morto dopo aver subìto una frattura a una vertebra del collo. Ma la procura della repubblica egiziana il 30 novembre ha annunciato che le indagini sull’incidente sarebbero state “temporaneamente” chiuse. Questa dichiarazione significa, secondo una fonte del governo egiziano, che ormai il caso non sarà più discusso dall’Egitto». La fonte ha anche spiegato che l’accordo tra il Cairo e Roma funziona così: “L’Italia farà ciò che vuole, l’Egitto farà ciò che vuole, e intanto i due paesi rimarranno amici”.
Come spesso accade, abbiamo l’impressione che reale giustizia, su questa vicenda, non ci sarà mai. Anche perché l’Italia non può fare a meno dell’Egitto. È notizia sempre di questi ultimi giorni che il governo italiano ha approvato nuove garanzie finanziarie, in previsione di un nuovo contratto per una fornitura di armi. Come spesso accade, gli aspetti economici avranno sempre la meglio. E fa male. Perché Regeni siamo noi. E noi siamo anche i suoi genitori, i suoi parenti, i suoi amici. Teniamolo bene a mente. Non c'è da fare chissà quale morale, ognuno di noi agisca di conseguenza come meglio creda.
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