Dalle parole di Alberto Soiatti emerge un profondo amore per la conservazione del classico, stile che – applicato alle due ruote – fa spesso rima con ripristino del bello. Restaurare è un’arte nobile e Alberto, sin dalla nascita, ha visto passare dalle mani del padre moto sfiorite, sventrate dal tempo che inesorabilmente scorre, inghiottendo senza pietà gli oggetti trascurati, arrugginiti come cancelli che cigolano sulle sterpaglie e dimenticano sottoterra il proprio glorioso passato. Da 45 anni Daniele Soiatti resuscita reperti a propulsione, li afferra per i capelli, strappandoli dalle vetrine dei musei e riportandoli dove nessuno avrebbe più immaginato di vederli: sull’asfalto. Un artigiano che – per doti tecniche, dedizione assoluta al mestiere e cura maniacale del dettaglio – somiglia più al primario di chirurgia di quelle motociclette che si pensa siano troppo belle per non avere un’anima. “Diversi clienti ci considerano l’ultima spiaggia”, dice infatti Alberto, l’uomo che ha elevato la figura del padre, trasformando Soiatti Moto Classiche in un’officina di riferimento non solo a Novara, non solo in Italia, ma nel mondo.
Restituiscono vita a moto adagiate sui fondali dell’Oceano Pacifico. Dove internet non può arrivare, Alberto e Daniele reperiscono i pezzi di ricambio dei modelli più rari mai esistiti, prodotti da marchi ormai caduti in disgrazia, spariti dal mercato oltre mezzo secolo fa. “Lavorare con le Triumph, invece, è facile”, confida Alberto mentre osserva il padre che opera gli ultimi ritocchi su una Bonneville del 1977. “Avere masticato la meccanica inglese per tutta la vita ci ha portato ad amare queste moto a spada e a tratta”, aggiunge poi, ammettendo di sposare la filosofia del marchio britannico, che dal 1885 al 2024 non ha mai dimenticato per strada le proprie origini: Triumph vanta una storia secolare che ha sempre sapientemente custodito e che continua a proteggere oggi, attirando con le sue linee raffinate ed eleganti utenti di qualsiasi fascia d’età. Non a caso, tra la Casa di Hinckley e Soiatti Moto Classiche – guidata da padre e figlio, due generazioni distinte che tendono ugualmente alla ricerca dell’estetica tradizionale – è nata una collaborazione. Ne abbiamo parlato con chi, per primo, ha creduto in tutto ciò.
Alberto, cos’è per te Soiatti Moto Classiche?
“Ho sempre bazzicato l’officina, mio padre fa questo mestiere dal 1979. Ho iniziato a lavorare fisso da lui dopo la mia laurea in Economia, nel 2015. La nostra è una bottega, nell’accezione pura del termine noi siamo artigiani. Non ci è mai piaciuto più tanto il concetto di commercio, nel senso che notoriamente si guadagnerebbe di più a prendere le moto, lavarle e rivenderle. Però reperire delle motociclette che parrebbero quasi inservibili e riportarle agli antichi fausti è un lavoro più artistico, che ti dà un lustro maggiore. Più di una volta siamo stati l’ultima chance di alcuni clienti, a fronte di vari preventivi ricevuti da altre officine che consigliavano loro di sbattere le moto in discarica”.
Com’è lavorare con tuo padre?
“La mia vocazione è complementare alla figura di mio padre, perché lui è il vero maestro artigiano. Io ho cercato di portare quel contrappasso figlio delle nuove generazioni, ovvero l’attenzione alla comunicazione sul digitale. All’inizio Instagram veniva visto come uno strumento per perdere tempo. Io ci credevo, ma non al punto di riuscire, negli anni, ad attrarre tanti clienti di spicco con moto importanti, perché alla fine la profilazione del nostro cliente medio coincide con una persona di 60 anni”.
Oggetti, attrezzi, profumi, odori…A cosa sei più affezionato della vostra bottega?
“Ogni angolo dell’officina emana una particolare essenza, virile direi. Io, per esempio, sono nato con l’odore della benzina attorno”.
Perché Triumph?
“Io credo che tutto dovesse scaturire in maniera naturale. Ho conosciuto i ragazzi di Triumph Italia, che a loro volta si erano accorti del mio amore per il marchio. Pur essendoci tante marche, italiane e non, che hanno una storia centenaria, Triumph secondo me è stata la migliore ad interpretare la motocicletta in chiave moderna. Oggi è difficile che uno di 30 o 40 anni sia sfegatato per caratteristiche tecniche come cavalli, newton-metri. Triumph ha capito che c’è un modo di vivere la motocicletta, un modo di vestire, un modo di sentirsi parte di quella filosofia”.
Cosa hai dato a Triumph che altri non sono riusciti a dare?
“Nel mio percepito – parlo così perché il mondo del marketing è criptico – credo che, rispetto ad altri testimonial del marchio, il nostro punto a favore sia stato proprio il discorso dell’officina, base da cui partire per raccontare il nostro mondo e abbinarlo allo stile Triumph”.
Marlon Brando con la Thunderbird 1950 ne “Il ribelle”. Steve McQueen in sella alla Trophy TR6, con cui salta la staccionata ne “La grande fuga”. Quale di questi binomi è più iconico?
“Sono follemente innamorato di Steve McQueen, tanto che uno dei miei orologi preferiti è il Tag Heuer Monaco, che si associa molto a Steve e al mondo Triumph. Oggi Triumph viaggia ancora di quell’immagine, non hanno bisogno di studiare chissà quali campagne marketing, perché quando un uomo entra nella leggenda ci resta per sempre. Ritengo proprio che Triumph, nell’immaginario collettivo, sia lo stile di Steve McQueen”.
Caratteristica preferita della Bonneville del 1977 che state restaurando?
“L’eleganza. Io e mio padre, avendone restaurate a centinaia, ci siamo sempre chiesti ‘ma tu quale preferisci?’. Alla fine non c’è scampo, le moto inglesi sono quelle che hanno più charm; quelle più classiche e più eleganti di tutte. A questa Bonneville del 1977 abbiamo rifatto il motore. A livello di estetica è stata pressoché conservata; la verniciatura era molto bella, non valeva la pena di intervenire con un make-up totale. A seconda dei casi stabiliamo noi, insieme al cliente, quanto valga la pena rifare in toto la motocicletta. Su questa Triumph, ad esempio, abbiamo mantenuto quelle schiariture, quelle patine, che si ritrovano nei quadranti degli orologi anni ’70-80”.
Quanto ci si mette a restaurare?
“A volte anche un anno, un anno e mezzo. Bisogna mettere sull’ago della bilancia la cilindrata, perché più si sale di cilindrata più aumentano i costi e le ore di lavorazione, e le componenti. Noi abbiamo restaurato moto i cui marchi sono falliti negli anni ’70, e in quei casi trovare i pezzi di ricambio è molto più difficile”.
Un modello di Triumph che restaureresti in eterno?
“Un modello particolare. Nel periodo di fusione tra Triumph e BSA venne prodotta la Hurricane. Una moto che secondo me, per l’epoca, è stata un esempio di design pazzesco, un mix tra classico e custom. Un colpo di genio”.
Secondo te la Speedtwin 1200 rappresenta la continuazione di quel sentimento di appartenenza a Triumph?
“Io credo che la Speedtwin rappresenti la continuità del marchio per le sue diverse sfaccettature. Ad osservarla, è molto contemporanea e molto sportiva, pur mantenendo quei tratti classici tipici delle Triumph d’epoca. La Bonneville ad esempio può essere vista per un cliente di età più avanzata, mentre la Speedtwin può essere più adatta ai giovani. Tra questi due modelli, c'è una sorta di continuità generazionale".
Dove si incontrano le storie di Triumph e di Soiatti Moto Classiche?
“La persona che insegnò il lavoro a mio padre correva negli anni ’70, con una Triumph BSA Rocket 3. Basta questo (sorride)”.
Il ricordo più bello che hai in relazione ad una moto?
“Ne ho due, uno relativo al prestigio della moto, un altro attinente alla sfera delle emozioni”.
Cominciamo dal prestigio della moto.
“Una Hercules 100, tirata fuori dall’Oceano in California e poi restaurata, è stato il nostro passepartout per approdare ai grandi concorsi, come quello di Villa d’Este. È stato il riconoscimento lavorativo più importante per noi”.
E a livello emotivo?
“Anni fa mio padre mi disse ‘prepara il furgone, che dobbiamo andare a prendere una moto’. Io pensai a chissà quale moto, invece arrivai su a Grumello del Monte, provincia di Bergamo, dove sostanzialmente aveva ritrovato il Califfo che suo nonno gli aveva regalato a 13 anni. A prima vista era un accrocchio pasticciato, e mi venne da ridere. Però in quel momento, vedendo gli occhi lucidi di mio padre, capii letteralmente cosa provano i nostri clienti quando vedono moto, che magari appartenevano al nonno, restaurate. A noi capita spesso di avere clienti che, al momento della consegna della moto, piangono”.