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Bentornata Suzuki Hayabusa, la Kim Kardashian delle due ruote

  • di Cosimo Curatola Cosimo Curatola

5 febbraio 2021

Bentornata Suzuki Hayabusa, la Kim Kardashian delle due ruote
La Suzuki Hayabusa è Beyoncé al Superbowl, la Incontrada su Vanity Fair, Naomi Campbell a Sanremo. Scegliete voi. Non le servono neanche i cavalli di una supersportiva moderna, perché a differenza di tutte le altre è un’icona del motociclismo.

di Cosimo Curatola Cosimo Curatola

La Suzuki Hayabusa non soffre il mercato, l’opinione degli appassionati e il tempo che passa. Perché è un’icona del motociclismo come non ne esistono più. Quando un modello storico viene rivoluzionato solitamente la gente impazzisce: “Era meglio prima, il contenimento dei costi l’ha rovinata, ormai sono tutte uguali”. E le cose non vadano diversamente quando lo stesso modello viene semplicemente aggiornato alle nuove normative: “la strumentazione è posticcia, manca l’elettronica, non è in linea con il mercato”. La Suzuki Hayabusa invece fa quello che vuole, legittimata dallo status conquistato quando non c’erano i social, l’elettronica sulle moto e  gli autovelox sulle statali. 

Uno dei tantissimi video vintage sulla Suzuki Hayabusa

Così, dopo quattro anni di apnea, eccola ritornare per il 2021, esagerata come sempre. Muso largo, seduta comoda, profilo aerodinamico. Ed anche se la tecnologia tenta di renderla più saggia, lei è la stessa di sempre. Trecento chilometri orari di velocità massima, un motore esagerato e una guida più dolce di quanto ci si possa aspettare. Il carattere Kanji sulla fiancata che fa tanto anni Novanta è ancora lì, come fosse un tatuaggio sopravvissuto ad un epoca di eccessi.

Anche il nome è sopravvissuto, e ad oggi è forse l’unico in un mondo di sigle e inglesismi ad essere così radicato alla cultura nipponica. Senti Hayabusa e in un attimo pensi a Ken il Guerriero, agli Onibaku di Shonan e alla flotta di piloti giapponesi che hanno fatto la storia. Kato, Abe, Haga. Alle loro tute sgargianti e ai coloratissimi Arai che andavano al tempo. Hayabusa è la traduzione di Falco Pellegrino, un piccolo rapace in grado di lanciarsi in picchiata ad una velocità di 385 (ripetiamo in lettere, come per gli assegni: trecentottantacinque) chilometri orari.

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Le tre serie della Suzuki Hayabusa. Da destra a sinistra: la prima del 1998, la seconda del 2008 e la terza, appena presentata.

Nessuno la usa per fare il tempo in pista. La promessa dell’Hayabusa a chi la guida è una: sali, rovesci la manopola del gas e ti caghi addosso. Punto. È una moto che puoi portare ai raduni, in pista, in cima al passo, al bar o anche in viaggio: sarà sempre a suo agio ma comunque fuori luogo. Perché la sua massima aspirazione è una pista di decollo per aeroplani, non un circuito per le moto. E quando la metti sul cavalletto alla fine del giro, mentre giri la chiave e togli il casco ti senti un sopravvissuto anche tu. Uno di quelli che hanno esagerato. Chi va in moto solitamente cerca la velocità, l’avventura, la tecnica. Cerca pace, scorrevolezza e solitudine. Poi, specialmente per qualcuno e un po’ per tutti, c’è la follia. Ecco, la Suzuki Hayabusa è uno straordinario rappresentante di quest’ultima categoria.

Il suo propulsore, un quattro in linea da 1.340 cc, adesso eroga 190 CV e 150Nm di coppia, e confrontando le schede tecniche ci accorgiamo che ha perso 7 cavalli e 5 Nm rispetto a prima a causa del passaggio all'Euro 5. Ma la sostanza non cambia, anzi: i ragazzi di Suzuki garantiscono che ai bassi e medi regimi, che è dove viene impiegata maggiormente una moto stradale, è più veloce di qualunque supersportiva presente sul mercato. Lei però le supersportive non le guarda neanche, non ha bisogno di essere così scomoda e rastremata: è la Kim Kardashian delle due ruote. Ci sarà sempre chi la compra per montarci due turbine e lanciarsi contro la barriera del suono (come Guy Martin), o chi ci installa una bombola di No2 per correre nelle drag races.

Perché è ancora la regina.

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