Per chi è cresciuto a Mantova, Tazio Nuvolari è in ogni cosa. Nei Viali, nel circuito della città, nei musei. Sembra stare sempre dietro l'angolo, come gli altri grandi che in quel piccolo gioiellino sono nati. E i mantovani se lo portano in giro, Nuvolari, nelle province e nelle altre città. A Roma lo ricordano con una statua firmata La città di Mantova nel cinquantesimo anniversario pose in Roma, 1968. Un mezzo busto, antico e moderno insieme, proprio com'era lui: "L'ultimo dei grandi piloti antichi e il primo dei moderni".
E dice tutto di Nuvolari, il suo essere cose diverse insieme, cose che combaciano, in un tempo epocale per la storia dei motori, dello sport, del pericolo che diventa divertimento.
Quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari,
la gente arriva in mucchio e si stende sui prati,
quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari,
la gente aspetta il suo arrivo per ore e ore
e finalmente quando sente il rumore
salta in piedi e lo saluta con la mano,
gli grida parole d’amore, e lo guarda scomparire
Così lo descrive Lucio Dalla, in una canzone che è la madre di un album dedicato alla velocità, Automobili, e al saper vivere dentro emozioni così, disperate e grandiose, madri e patri di uno sport che è cambiato tantissimo, da Nuvolari a oggi, forse però senza cambiare mai.
Torna oggi di attualità la sua storia nel giorno dell'anniversario della sua morte, avvenuta l'11 agosto del 1953. L'essere campione in uno sport che sta nascendo e allo stesso tempo rimanere incastrato tra due mondi, questo lo ha reso per sempre eterno. Lui, figlio di un agricoltore a cui Tazio rubò la macchina, a soli 11 anni, per iniziare il viaggio della vita, quello al volante. Per andare da nessuna parte, solo per guidare. Guidare il mondo delle corse fuori dai primi anni del 900, verso un futuro forse meno puro, ma sicuramente più invitante.
Mai legato a niente, a nessun partito, a nessun Fascismo che voleva fare di lui, esempio di una velocità futurista, simbolo e modello. Ma “era un innocente. Per questo ogni notte dormiva tranquillo” scrive Casamassima nella biografia.
E gli innocenti non hanno i vincoli degli altri, forse nemmeno le paure. Solo un dono, accettato da Gabriele D'Annuncio e mai più abbandonato: la tartaruga. Donata nel 1932 "all'uomo più veloce, l'animale più lento" e poi portata ovunque: sugli aerei, gli stemmi, sui ricami, sugli orologi.
Si videro al Vittoriale di D'Annunzio, a Gardone, poco lontano dalla Mantova di Tazio. Undici giorni dopo il trionfo di Monte Carlo la popolarità del Campionissimo, come lo chiamavano tutti, era straripante. Lì gli regalò la prima tartaruga d'oro, un simbolo poi diventato amuleto di una vita intera, ad accompagnarlo fino al 1952, anno della sua morte, dopo un ictus che lo colpì mesi prima.
Morte, e perdita, che nessuno può descrivere meglio di Enzo Ferrari: "Non appena mi giunse notizia della sua fine partii per Mantova. Nella fretta mi persi in un dedalo di strade sconosciute della città. Scesi di macchina, chiesi a un negozio di stagnino la via per villa Nuvolari. Ne uscì un anziano operaio, che prima di rispondermi fece un giro intorno alla macchina, per leggere la targa. Capì, mi prese una mano e la strinse con calore. 'Grazie di essere venuto'— bisbigliò commosso — 'Come quello là non ne nasceranno più'".