Quali sono le frasi più iconiche della storia dell’umanità? “Tu quoque Brute fili mi”, “Essere o non essere”, “I have a dream”… “Se famo er terzo vengo sotto a curva”. Sì lo abbiamo scritto davvero. 30 settembre 2001. Più di vent'anni fa la storia del calcio venne scritta da un gesto istintivo, quello di Carletto Mazzone, al tempo allenatore del Brescia di tali Pirlo, Toni, Guardiola e Roberto Baggio. La pronunciò di petto verso la curva dei rivali dell’Atalanta a circa una cinquantina, se non di più, metri di distanza dalla sua panchina. La “Dea” stava conducendo per 3-1 il derby ed estasiati dal risultato ottenuto in rimonta (e forse anche dal profumo delle birre) ha iniziato a inveire contro Mazzone e sua madre, scomparsa da poco. L’allenatore romano è costretto a subire e da fuori mostra una calma zen. Dentro però picchierebbe chiunque si presenti di fronte a lui e non è un caso che nessuno gli va intorno, neanche per confortarlo, avrebbe fatto peggio. Poi succede l’impensabile. Dopo la sua scomparsa, a 86 anni, ricordiamo quel momento di magia.
A un quarto d’ora dalla fine Roberto Baggio cominciò a fare Roberto Baggio e accorciò le distanze. Lì la promessa, poi mantenuta. “Se famo il 3-3 vengo sotto la curva, se famo il terzo gol vengo” urla Mazzone. Glielo dice, sa che sarà difficilissimo perché l’Atalanta difenderà il vantaggio a costo di giocare in 7 uomini. Mazzone però ci crede, guarda in alto, si rivolge a qualcuno e implora il dio del calcio di pareggiare la partita. Desiderio esaudito. Calcio di punizione sempre del dieci che la pennella perfettamente in rete. 3 a 3.
Ecco, adesso immaginatevi la scena con “Don’t stop me now” dei Queen in sottofondo. Perché tutti i calciatori si girano verso di lui, Carlo Mazzone che si sbraccia tra lo staff con il suo giaccone blu e corre urlando verso la curva avversaria. Un gesto genuino, istintivo, bello. Forse quello è stato uno dei pochi segnali che il Dio del calcio esiste. Perché doveva succedere. Mazzone doveva andare sotto quella curva. Carletto poi, bersagliato dalle critiche, se ne inventò un’altra delle sue: “In campo c’era il mio gemello cattivo, non c’ero io”. Poco importa chi è stato, Mazzone si meritava quella corsa così come i tifosi dell’Atalanta meritavano la vendetta del romano e noi ci meritiamo altrettanto di parlarne dopo vent’anni. Perché di fronte a gesti così adesso si inneggia allo scandalo e alla poca sportività, quando invece ci ricordano soltanto quanto la linea tra tifosi, allenatori e calciatori sia così sottile da essere invisibile quando si parla di passione per una palla che rotola. È solo uno sport, è vero, come quella era soltanto una corsa. Una corsa che rimarrà nella storia. Ciao Carletto!