Qualche focolaio nella placida Oporto, ma niente di più. Questo è il bollettino di guerra della tre giorni portoghese durante la finale di Champions League. Circola un video su internet, una piazza gremita di hooligans tripponi e paonazzi in volto, qualcuno fa volare in aria un monopattino elettrico – e fin qui, niente di strano –, altri due fanno un frontale muso a muso, separati con poca convinzione da un terzo, infine un altro ancora rifila un cartone in faccia a un povero disgraziato che con ogni probabilità ha pagato pegno con qualche dente.
Poteva andare peggio, visti i nefasti presagi orditi da una cabala crudele. Corsi e ricorsi storici hanno voluto che la finale di Champions League tra Chelsea e City, Tommy Tuchel e Pep Guardiola, Damon Albarn, leader dei Blur, e Liam Gallagher degli Oasis, fosse disputata nel giorno dell’anniversario dell’Heysel. Un inno alla britannicità sì, ma inevitbailmente ci ha riportati a quel 29 maggio di trentasei anni fa. Quello dell’Heysel fu esempio tragico quanto tangibile della legge di Murphy: “se qualcosa può andare storto, lo farà”. Andò male qualsiasi cosa, dai tifosi bianconeri finiti chissà come nel settore Z pieno zeppo di sciarpe Reds, fino all’imbarazzante stato di impreparazione della polizia belga, che vedendo l’onda bianconera in fuga verso il campo, la rispedì a manganellate nelle fauci del mostro. A rendere il tutto più complicato la presenza degli Headhunters del Chelsea. Le trentanove vittime dell’Heysel sono lo spettro di un calcio che, seppur con tanta buona volontà, non è ancora riuscito a espiare del tutto le sue colpe.
Fu indubbiamente l’episodio cardine del calcio moderno, le sliding doors che resero evidente l’insostenibilità di un sistema ormai al collasso. E non era solo un problema di tifo violento, a essere inadeguate erano anche le strutture. L’11 maggio, diciotto giorni prima del disastro belga, crollò lo stadio di Bradford, letteralmente carbonizzato dopo un incendio innescato probabilmente da una banale sigaretta. Per un match di Third Division morirono 56 persone.
Le risposte furono ferme e decise, sia a livello inglese, con il pugno duro della sergente di ferro Margaret Thatcher, sia a livello europeo, con la “Convenzione europea sulla violenza e i disordini degli spettatori durante le manifestazioni sportive, segnatamente nelle partite di calcio”, firmata il 19 agosto dello stesso anno. Da una parte, si introducevano misure preventive e punitive quasi di matrice militare, con perquisizioni a tappeto, innalzamento di barriere e gabbie negli stadi e forti limitazioni alla vendita di alcolici nei giorni delle partite. Dall’altra si istituiva una sorta di cabina di regia atta al contenimento della violenza negli stadi tramite la cooperazione gli organi organizzativi e di sicurezza. Il risultato fu la squalifica delle squadre inglesi dalle competizioni europee per cinque anni. Il sistema calcistico britannico provò a ripartire, tra senso di colpa e inadeguatezza. Ma la strage di Hillsborough dell’89 fu un altro evento spartiacque a conferma che sì, c’era ancora tanto da lavorare.
Negli ultimi trent’anni il movimento calcistico inglese è risorto dalle ceneri, diventando un modello sportivo a livello mondiale. In campo, ricco di stelle, sugli spalti, ormai senza barriere e con il pubblico a due passi dal terreno di gioco, con un solo cordone di stewards a protezione. Eppure, è lecito concedersi il beneficio del dubbio: il modello inglese è davvero efficace? Sembrerebbe di sì, visti anche i dati confortanti riguardo alla diminuzione degli arresti nel Regno Unito per reati collegati al fenomeno. Ma pensare che il problema sia estinto è ingenuo. Le scorribande albioniche in terre europee sono un’abitudine dura a morire. In patria le firm sono state costrette a creare territori di caccia altrove, privilegiando stazioni e vicoli deserti, e non hanno vergogna di portare la violenza in tournée, sfruttando occasioni ghiotte come le “notti magiche” di Mondiali, Europei e Champions League. Tristemente celebri sono gli scontri di Euro2016, quando migliaia di facinorosi inglesi – ma non solo – misero a ferro e fuoco Marsiglia e Parigi cercando lo scontro con i supporters di casa e con gli odiati russi. Leggermente migliore fu la situazione a Russia 2018: si sa, la polizia russa è tosta, ti randella senza fare complimenti. Curiosa in quell’occasione fu la proposta del politico Igor Lebedev, membro della Russian Football Union: costruire arene nelle quali rinchiudere i teppisti dei due schieramenti, e vediamo chi rimane in piedi alla fine. Della serie, fa ridere ma fa anche riflettere.
La stessa Margaret Thatcher fu la prima a suggerire senza mezzi termini alle forze di polizia straniere di “prendersi cura” dei compatrioti facinorosi in modi non necessariamente leciti. Un aneddoto epico fu quello di Italia ’90. Gli hooligans, dopo un lustro di inusuale tranquillità in patria, si imbarcarono per la Sardegna, dove erano stati relegati “per contenere i danni”, con l’intenzione di fare un bel casino. Ma con i sardi, come con i russi, non si scherza. A illuminarci è Marco Bernardini, firma di Tuttosport e inviato nell’isola proprio durante quelle indimenticabili notti magiche. La Sardegna intera, per definizione diffidente nei confronti dello straniero, coriacea e dagli anticorpi potentissimi, si preparò ad affrontare l’onda barbara dei panzuti e paonazzi supporters inglesi. Forze di polizia dispiegate in ogni angolo dell’isola, Cagliari resa praticamente zona militarizzata. Prima della delicata sfida Eire – Inghilterra, poi, da ogni dove arrivarono sotto al Sant’Elia orde di “volontari”. Omaccioni grossi e cattivi, a sfatare il mito del sardo piccoletto e mingherlino, una milizia paramilitare organizzata alla meno peggio, che all’arrivo via mare degli hooligans rispose con un vero e proprio sequestro, prendendo per le orecchie i teppisti d’oltremanica e gettandoli letteralmente in mare. Il tipico esempio dell’italica tendenza all’unire l’utile al dilettevole.
C’è poi il caso di Roma, quando arrivano gli inglesi succede sempre un casino. E gli ultras giallorossi, va detto, non sono certo teneri. Roma – Liverpool del 2001: una decina di Reds accoltellati. Roma – Middlesborough del 2006: tre accoltellati e parecchi pestati. Roma – United, 2007: una vera e propria guerriglia urbana, con sette accoltellati. Fino a Roma – Liverpool del 2018, quando migliaia di tifosi Reds invasero la Capitale cercando vendetta per l’atroce pestaggio subìto in occasione della gara di andata da Sean Cox. Intendiamoci, anche in campo il modello inglese certe volte ha fatto acqua, e parliamo di disordini avvenuti proprio in quel Regno Unito che a sentir tutti sembra aver sconfitto il fenomeno hooligans. Il sistema di controllo a tappeto fuori dallo stadio, per esempio, non è sempre stato impeccabile. Nel corso di un Old Firm datato 1999, l’arbitro Hugh Dallas fu centrato in testa da un razzo scagliato dalle tribune. Sorte simile per un altro fischietto, Andy Hall, che nel 2003 a Loftus Road – casa del Queens Park Rangers – si beccò in testa una lattina di birra e una monetina. Qualcosa di talmente anacronistico e anni ’70 – vedi la celebre Büchsenwurfspiel – da esser quasi romantico.
In generale, l’assenza di barriere tra terreno di gioco e spalti è un rischio. Furono numerose le invasioni di campo dal ’90 a oggi. Passato agli annali fu il cazzotto preso in faccia dal povero Frankie Lampard nell’anno di gloria 2007: autore del gentil gesto il supporter del Tottenham Tim Smith, subito messo a terra da Faría, e preso a pedate da Drogba. Un altro gesto tecnico di un certo livello si registrò nel 2012 durante Sheffield Wednesday – Leeds: tale Aaron Cawley – sponda Leeds – con una furtività degna di un ninja entrò in campo, malmenò il povero portiere locale Kirkland e se ne tornò in curva come niente fosse. Talmente ubriaco da non ricordarsi dell’eroico gesto, il chiedere scusa non gli risparmiò un viaggio premio nelle galere di sua Maestà per sedici settimane e un daspo di sei anni. A invertire la tendenza fu Cantona, che con una Sweet chin music al gusto WWE stese un povero disgraziato sugli spalti. Ma questa è un’altra storia.
Insomma, quella di considerare il modello inglese perfetto è una moda tipicamente italiana. L’erba del vicino per noi sarà sempre più verde. I disordini ci sono e ci saranno sempre, finché esisterà il calcio. Alzare barriere e schedare le persone servono a mantenere ordine all’interno delle strutture – ed è una gran conquista, ci mancherebbe altro – ma non impedirà mai ai già citati Headhunters, alla Red Army dello United, alla 6.57 Crew del Portsmouth – e potremmo continuare per giorni – di darsi appuntamento in qualche vicolo per darsele di santa ragione, né impediranno di beccarti una scarpata nel culo nel caso tu passassi disgraziatamente di lì. L’unica consolazione, per chiudere con una battuta ma neanche tanto, sono i modesti risultati del Millwall: improbabile che entri in Europa nel giro dei prossimi dieci anni. È una fortuna: trovarsi i Bushwackers sotto casa che se le danno con i tifosi della squadra della tua città non è il massimo della vita. No one likes us, we don’t care dice il loro motto. E ci sarà pure un motivo.